5 Luoghi Geniali dove ammirare i fossili

Un viaggio all’indietro nel tempo a caccia di conchiglie, foreste pietrificate e dinosauri, per la gioia dei più piccoli e non solo

Si sa, la preistoria, col suo esercito di dinosauri inghiottiti dal tempo, esercita un fascino incredibile sui bambini (e su tanti adulti). Da questo punto di vista in Italia siamo molto fortunati, dato che esistono un’infinità di luoghi dove scoprire le vestigia di quel lontano passato, quando l’uomo doveva ancora muovere i primi passi sulla Terra. Per scrivere il mio ultimo libro “Guida ai luoghi geniali” (Ediciclo Editore), ho avuto la fortuna di visitarne tantissimi da nord a sud, naturalmente insieme ai miei figli di 9 e 7 anni. Vi riporto qui sotto un elenco di questi luoghi, rimandando al libro chi desidera saperne di più.

Il giacimento fossilifero del fiume Panaro – Vignola (Modena)

Questo sito è vicinissimo a casa mia e si tratta di uno dei giacimenti più accessibili d’Italia. Non lontano dalla Rocca di Vignola, sulla riva del fiume c’è un affioramento di argille azzurre plio-pleistoceniche: granuli finissimi di sedimento color piombo che inglobano una fauna ricchissima, costituita per lo più da conchiglie. Le vedi sbucare, imbrigliate nella polvere, come perle luccicanti. Sono la suggestiva testimonianza di un antichissimo fondale sabbioso, quando gli Appennini non erano altro che anonimi rilievi montuosi in mezzo al mare

Il Museo dei Fossili e la Pesciara di Bolca – Vestenanova (Verona)

Questo è uno dei giacimenti fossiliferi più importanti del mondo per estensione. I fossili sono costituiti, per lo più, da pesci, compresi oltre 150 specie di squali. Nel parco attorno alla Pesciara, è possibile fare delle bellissime passeggiate paleontologiche coi bambini, guidati da alcuni operatori. Infine, si va tutti insieme al Museo.

Foresta fossile di Dunarobba Avigliano Umbro (Terni)

Pochi sanno che in Umbria c’è un’intera foresta fossile, che venne alla luce alla fine degli anni ’70 in una cava d’argilla. Potrete ammirare decine di trochi fossili, ossia quel che resta di un bosco di conifere del Pliocene, inghiottito da una palude qualche milione di anni fa, quando qui c’era un vasto lago.

Paleolab – Parco Geopaleontologico di Pietraroja (Benevento)

Forse non lo sapete, ma è italiano uno dei fossili di dinosauro più preziosi mai ritrovati. L’hanno battezzato “Ciro” ed è tornato alla luce nel 1998. Allora ne parlarono tutti i giornali perché il dinosauro Ciro, oltre alle ossa, presentava anche gli organi interni fossilizzati. Al Palolab, oltre a scoprire tutto su Ciro, si possono ammirare tanti fossili di notevole importanza.

Orme dei Dinosauri – Rovereto (Trento)

All’interno dell’area protetta dei Lavini di Marco, una grande distesa di roccia che è quanto resta di antichissime frane, nel 1990 sono state scoperte le tracce di un mondo perduto: centinaia di impronte di forme e dimensioni differenti, che gli scienziati hanno identificato come orme di dinosauri. Parliamo di rettili di almeno tre tipi: carnivori come i ceratosauri, giganteschi erbivori (vulcanodontidi) e animali più piccoli come gli ornitischi. Per saperne di più si può visitare il Museo Civico di Rovereto (Trento).

Il lago dell’arcobaleno che non esiste più…

Era uno dei luoghi più incantevoli delle Dolomiti. Serviranno decenni perché ritrovi l’antica bellezza

Ecco un’altra meraviglia della nostra Italia, nel cuore delle Alpi, incastonata fra le Dolomiti. Ti prepari al bello, perché le immagini del lago di Carezza, in Alto Adige, le hai già viste mille volte online, sui libri e perfino come sfondi dei desktop; eppure, salendo lungo la strada tutte curve che ti porta in questo angolo di magia fra gli abeti, a oltre 1500 metri di quota, la domanda è sempre una: l’acqua avrà davvero quelle sfumature che paiono irreali, che sembrano photoshoppate, tanto che in lingua ladina questo lago è detto “arcoboàn”, ossia dell’arcobaleno? Ebbene, fino a qualche tempo fa non si restava delusi. Io lo vidi per la prima volta in autunno, in un mattino gelido che si concluse con una spolverata di neve fine. Sul lago c’era un velo di ghiaccio che zigrinava la superficie, rendendolo ancora più scintillante. Dietro, maestosa, la mole del Latemar e quella del Catinaccio, coi loro pinnacoli di pietra. Una visione di pace e di armonia, che rasserenava lo spirito, soprattutto in bassa stagione quando il lago era immerso nel silenzio.

C’è anche una leggenda legata al lago di Carezza. Si racconta della bella ninfa Ondina, che ne abitava le acque. Lo stregone del Latemar se ne era perdutamente innamorato e tentò più volte di rapirla. Un giorno, per incanto, fece apparire sopra al lago un bellissimo arcobaleno allo scopo di attrarre la ninfa e portarsela via. Quando Ondina salì dalle acque e vide lo stregone fuggì terrorizzata; allora lui, accecato dall’ira, distrusse l’arcobaleno in mille pezzi come fosse uno specchio. I frammenti caddero nel lago e si sciolsero nell’acqua, donandole, come per magia, i colori dell’iride.

Purtroppo oggi lo scenario che avvolge il lago di Carezza è molto cambiato. Il 30 ottobre 2018 tutta la zona è stata devastata dalla tempesta Vaia, con raffiche di vento che, sul passo Rolle in Trentino, hanno superato i 200 km/h. Secondo il celebre alpinista Messner, si è trattato di venti paragonabili a quelli che si registrano sull’Everest. I boschi di larici e abeti che coronavano il lago sono stati abbattuti e il paesaggio è tuttora triste e desolato. Serviranno decenni perché tutto torni com’era e l’autunno infiammi di nuovo, coi suoi colori caldi, le foreste attorno alla dimora della ninfa Ondina.

Le piramidi di roccia più belle del mondo

Ammirando l’incanto delle Tre Cime di Lavaredo

Sono lì, sospese tra terra e cielo, allineate come sentinelle al confine tra Veneto e Trentino Alto Adige. Secondo molti, sono le vette più spettacolari tra le montagne più spettacolari del mondo: le Dolomiti. Parliamo delle Tre Cime di Lavaredo, facilmente raggiungibili in auto attraverso la strada panoramica a pedaggio di ingresso al parcheggio, che sale da Misurina, ma che si apprezzano in tutta la loro magnificenza solo grazie a uno dei tanti trekking che si snodano tutto attorno. La prima volta che le ho viste, in autunno come adesso, mi hanno lasciato disorientato per la loro maestosità, per quel senso di trascendenza che le avvolge, lì, armoniosamente allineate da millenni. E mi colpiva pensare, mentre ammiravo un paio di rocciatori appesi nel vuoto, che questo prodigio della natura abbia fatto da sfondo alle battaglie della prima guerra mondiale: tra il 1915 e il 1917 il fronte passava di qui. Nel vicino monte Paterno, rimangono tuttora gallerie, trincee, baraccamenti, che si possono esplorare.

Gli escursionisti vanno e vengono, la giornata è ideale, ma l’inverno è alle porte. Tra poco una coltre candida sommergerà i sentieri, i bivacchi, la chiesetta degli Alpini, cristallizzando tutto come se il tempo si fermasse in uno scenario che riporta tutti noi alle dolcezze dell’infanzia. Invidio i camperisti, gli escursionisti in tenda o quelli che, pernottando in qualche rifugio ancora aperto, tufferanno lo sguardo fra le stelle, stasera, e guardaranno l’Orsa Minore crepitare nel silenzio, mentre domina i pinnacoli di pietra.

Questa è la nostra Italia. Quando ne cogli il suo lato più selvaggio e inaccessibile, nella luce dorata del sole, non può che salire al cielo una preghiera di ringraziamento per tanta meraviglia che ci è stata donata; se manca la fede, non importa, perché la voce di queste piramidi di roccia che racconta di antichi oceani, dono del tempo e dell’erosione, riempie il cuore di pace. Mai come oggi, col mondo alle strette, abbiamo bisogno di un po’ di serenità che ci scaldi l’anima ed è consolante trovarla nella gratuità del creato.

Val di Funes, il fascino segreto dell’Alto Adige

Tutto l’incanto dei colori autunnali in una valle incantevole, considerata tra le più belle del mondo

Quando ho bisogno di riposare lo sguardo, liberandolo da tutta la polvere, le ansie, il rumore di fondo della nostra vita, io ripenso e sogno la Val di Funes. La vedo così, a occhi chiusi, scintillante coi suoi prati che sembrano tele al sole, il cielo puro, quel silenzio terapeutico che appiana i pensieri.

Siamo stati capaci di ammorbare il fascino di molti luoghi delle nostre Alpi, ma non la Val di Funes che è sempre uguale a se stessa, appartata, in un angolino dell’Alto Adige ai piedi delle Odle. Si dirama tra Bressanone e Chiusa fino all’ultimo centro abitato, Santa Maddalena (1.339 m s.l.m.), porta d’accesso al Parco Naturale Puez-Odle. Se ci andate adesso, in autunno, non troverete nessuno, a parte qualche fortunato camperista che può dormire sotto le stelle.

Prati in Val di Funes – Alto Adige

Tra le immense abetaie brillano come fiaccole i pini dorati, mentre il verde tutto attorno è ancora carico di luce, prima dei geli invernali. Non perdetevi i borghi della valle: Funes, appunto, perla della Alpi, e poi San Valentino, San Giacomo e Tiso, tappa perfetta se avete con voi dei bambini perché potranno visitare il Museo Mineralogico (Mineralienmuseum Teis), nato dalla passione di due collezionisti.

Il gruppo delle Odle – Alto Adige

Non stupisce, infine, che tanta bellezza abbia nutrito lo spirito della gente di qui, levando il loro sguardo verso l’alto; questa valle, infatti, è celebre per le sue chiesette e le pievi, autentiche meraviglie architettoniche e preziose espressione di devozione popolare. Andate alla chiesa di San Giacomo, a quella di San Pietro e Paolo, alla cappella che domina il colle del Santo Sepolcro. Soprattutto, fermatevi un poco a contemplare la chiesetta di San Giovanni, icona fotografica della Valle. Colorata e misteriosa, domina come una principessa un vasto prato dove capita di vedere bambini intenti a far volare gli aquiloni.

Come arrivare: sulla A22 del Brennero, uscita Chiusa – Val Gardena, poi indicazioni per Funes (SP141)

Le spiagge bianche di Rosignano Solvay: i Caraibi in Toscana

Mare turchese e sabbia candida come alle Maldive, ma dietro c’è un segreto un po’ inquietante

No, non siamo a Santo Domingo o giù di lì, anche se tutto la fa pensare, e no, le foto non sono photshoppate. C’è un luogo nella nostra bella Toscana dove il mare ha un colore così turchese da sembrare irreale e la sabbia è candida come farina. Si tratta delle Spiagge Bianche di Rosignano Solvay, in provincia di Livorno, all’estremo lembo settentrionale della costa maremmana. Solvay vi dice qualcosa? Vi ricorda forse il bicarbonato? Ecco, ci avete beccato. Infatti la nota azienda chimica si trova circa a un km dalla spiaggia e il mare deve allo stabilimento il suo straordinario colore.

L’azzurro non è naturale, ma frutto dei residui di lavorazione sversati negli anni, ricchi di carbonato di calcio, che hanno via via sbiancato sabbia e fondale. La sodiera è la più grande d’Europa e venne costruita nel 1912 nei pressi della costa per produrre, oltre al noto bicarbonato di sodio, acido cloridrico, cloruro di calcio, polietilene e altre amenità chimiche. Nel 1917 si era già creato attorno alla fabbrica un vero e proprio paese, richiamando lavoratori da tutto il circondario, un territorio fortemente depresso e afflitto dalla malaria e dal brigantaggio. Il borgo venne chiamato Solvay Rosignano proprio in onore dei fondatori dell’azienda, i fratelli di origini belga Ernest e Albert Solvay.

All’interno di Rosignano Solvay sorse anche il Villaggio Solvay, raro esempio di “città giardino” in Italia. Si tratta di un insediamento residenziale in cui le abitazioni, realizzate con uno stile architettonico nordico, riflettevano le gerarchie interne dell’azienda: numerate in ordine crescente a seconda dell’importanza di chi ci abitava, andavano dalle case di tipo 1 per i dirigenti alle bifamiliari di tipo 7 per gli impiegati fino a quelle di tipo 9, con quattro appartamenti, per gli operai. Lo so, a noi la cosa fa venire in mente suggestioni di fantozziana memoria ma all’epoca il villaggio, progettato su una maglia ortogonale, aveva un aspetto unitario e autosufficiente. C’erano scuole, un ospedale, il circolo-teatro a prezzi popolari che richiamava grandi folle, aree verdi ricreative e pure un casino-foresteria.  

Oggi gli stabilimenti della Solvay continuano la loro produzione, circondati da dune di sabbia abbacinante, al cospetto di un lungo pontile a cui attraccano le navi. Dall’azienda arriva un canale che sversa in mare un’acqua di uno strano colore opalescente. A intervalli regolari si levano dalla sabbia dei cartelli con su scritto “Divieto di balneazione”, ma per molti la tentazione è troppo forte e in estate si contano sempre tante persone che fanno il bagno. I più, increduli, si dilettano ammirando le sfumature dell’acqua e scattando foto agli amici per dire di essere alle Barbados. Pensate che, nonostante tutto, questo tratto di costa è stato insignito più volte con la Bandiera Blu.

Parco Archeominerario di San Silvestro: tutto il fascino delle miniere

In Toscana, tra le colline di Campiglia Marittima, a esplorare antiche miniere e borghi fantasma

Avete con voi dei piccoli cacciatori di minerali, alla ricerca di rarità? Oppure dei ghostbusters in erba che amano i luoghi abbandonati, carichi di leggende? Allora questo splendido Parco di Campiglia Marittima, in provincia di Livorno, fa davvero al caso vostro, poiché unisce in un colpo solo il fascino del borgo fantasma all’emozione di esplorare ben due miniere, una a piedi e l’altra col classico trenino. Vi anticipo che i miei figli di 7 e 9 anni sono rimasti incantati, al di là della fatica dovuta al sole inclemente.

Andiamo con ordine. Ci troviamo appunto nel territorio di Campiglia Marittima, che a dispetto del nome non è sul mare bensì poco lontano (Marittima significa “della Maremma”). Tutta la zona, abitata fin dall’antichità, è ricca di giacimenti minerari di calcopirite, da cui si estrae il rame, e di galena argentifera, utili per ricavarne argento. C’è anche qualche miniera di limonite, che mescolata con l’ematite proveniente dall’Elba permetteva di ottenere il ferro.

Tutta l’area di Campiglia è ricca di antiche vestigia legate alla tradizione mineraria e, per nostra fortuna, è stato realizzato un Parco che cinge alcune delle testimonianze più importanti, prima fra tutte le rovine di Rocca San Silvestro, un villaggio fantasma sorto fra il X e l’XI secolo e abbandonato pochi secoli dopo. Le rovine del villaggio si ergono sulla cima di un colle, tra gli ulivi, e si possono raggiungere e visitare con una piacevole passeggiata. Pensate che fino agli anni ’80 l’intero complesso era sepolto dalla vegetazione ed è tornato alla luce grazie a recenti campagne di scavo. Nella Rocca ci sono i resti della chiesa, delle mura, il minuscolo cimitero, le rovine di alcune abitazioni e opifici.

La Rocca di San Silvestro è solo il cuore del Parco, che si estende per circa 450 ettari. Chi è più in forma e ha al seguito bambini grandicelli, può dedicarsi all’esplorazione dell’area seguendo uno dei tanti sentieri, riportati sulla mappa disponibile in biglietteria. Lungo il percorso si incontrano impressionanti cave di calcare a cielo aperto, pozzi di estrazione, gallerie e impianti dismessi che faranno la gioia degli amanti dell’archeologia industriale.

Da non perdere la visita alla miniera del Temperino, dove si entra a piedi con caschetto e guida (nonché una felpetta se no il colpo d’aria è assicurato e in questi tempi di Covid meglio evitare); qui potrete esplorare le gallerie realizzate da minatori e ammirare minerali e concrezioni alle pareti. I più piccoli si divertiranno molto visitando la miniera adiacente, in cui si entra con un caratteristico trenino tutto giallo che ne percorre un tratto, mentre scorrono davanti agli occhi vari reperti legati all’attività mineraria, dismessa a fine anni ’70: martelli pneumatici, carrellini arrugginiti, cumuli di materiale. Infine, prima di tornare a casa o fare una puntatina al mare che è lì a due passi, si può visitare il museo e acquistare qualche minerale per la nostra collezione (i miei figli mi hanno dilapidato il portafogli). All’ingresso c’è un ampio parcheggio dove, al momento della mia visita, erano presenti anche alcuni camper; immagino quindi che non ci siano problemi a raggiungere il Parco se siete in viaggio con questi mezzi.

Info qui.

Il borgo fantasma di Monterano

In provincia di Roma, un’antica città perduta continua a richiamare, col suo fascino, escursionisti e romantici sognatori

Ecco uno di quei luoghi che si imprimono nella memoria per il loro fascino e l’atmosfera che li avvolge. Parlo di uno dei borghi fantasma più belli che abbia mai visto, in effetti un po’ difficile da raggiungere proprio come deve essere, ma nulla di drammatico se non ci tenete troppo alle sospensioni e alle gomme della vostra auto. Io, tra l’altro, avevo con me i miei due bambini che si sono divertiti molto.

Siamo nel cuore di una riserva naturale in provincia di Roma, al confine con quella di Viterbo. Il lago di Bracciano è poco lontano. In una spianata in mezzo alla boscaglia riposa da oltre duecento anni il borgo di Monterano, abbandonato nel 1799 dopo un saccheggio da parte delle truppe francesi. Quando gli abitanti se ne andarono, Monterano doveva essere un bel posto da un punto di vista architettonico. Oggi il colpo d’occhio sulle rovine della chiesa di San Bonaventura, del convento annesso e della fontana ottagonale che dominava la piazza è commovente, soprattutto per il senso di lontananza da ogni cosa, il verde degli alberi che vestono le colline in ogni direzione, il silenzio disturbato solo dal canto folle delle cicale. Il complesso di San Bonaventura, nella cui navata troneggia un gigantesco albero, venne costruito tra il 1677 ed il 1679 e affidato agli Agostiniani Scalzi, quindi agli eremiti servi di Maria di Monte Senario. Esiste un dipinto, nel palazzo Altieri di Oriolo Romano, in cui la chiesa è rappresentata, così possiamo sapere che aspetto avesse ai tempi. Leggenda vuole che nel prato davanti alla chiesa ogni tanto capiti di vedere un cavallo selvaggio, lì a vagabondare mestamente all’ombra delle rovine.

Non lontano da San Bonaventura si ergono le vestigia del palazzo ducale o castello Orsini-Altieri, in parte avvolte dai rovi che gli conferiscono un’aria assai romantica. Sulla facciata del palazzo venne realizzata, nella seconda metà del ‘600, una fontana, opera di Gian Lorenzo Bernini, in cui spicca la statua di un leone ancora oggi visibile che percuote la roccia con la zampa facendo zampillare l’acqua. Accanto ai grandiosi ruderi del maniero si notano un campanile – tutto ciò che rimane della cattedrale di Santa Maria Assunta, fondata nel XII secolo – e i resti di una terza chiesa, San Rocco, di cui sopravvivono l’abside e l’altare.

Sono impressionanti i resti dell’acquedotto, la prima cosa che vedrete del borgo una volta arrivati. Recentemente restaurato, attraversava le colline grazie a un canale sotterraneo che sbucava in superficie nel tratto finale, alle porte del centro abitato, superando la piccola valle ai piedi del castello con una imponente struttura a doppie arcate. Vicino c’è una terza fontana che sembra abbia funzionato fino a poco tempo fa, stando alle testimonianze di alcuni escursionisti delusi, incontrati proprio lì davanti con le borracce vuote in mano.

Grazie al suo fascino, Monterano ha fatto da set naturale a decine di film a partire dagli anni ’50, tra cui ricordiamo “Il marchese del Grillo” e “Ben-Hur”. Il borgo fantasma può essere raggiunto a piedi con una breve passeggiata, dopo aver percorso però diversi chilometri lungo una strada sterrata stretta e costellata di grosse buche, che immagino si trasformi in un torrente nei giorni di pioggia. Si possono raggiungere, in zona, anche una zolfatara e le cascate della Diosilla. Durante l’escursione vi sentirete letteralmente nel nulla, soprattutto nei giorni infrasettimanali, e le persone più suggestionabili potrebbero avere un po’ di timore. Non importa: indossate scarpe comode, prendete con voi acqua e cibo e non ve ne pentirete.

5 luoghi geniali dove la terra parla

Un viaggio tutto italiano nella memoria del nostro pianeta, dove gli elementi si rigenerano e celebrano la propria bellezza

Durante la lunga avventura che mi ha portato a scrivere il mio ultimo libro, “Guida ai luoghi geniali” (Ediciclo Editore), tutto dedicato all’Italia della scienza e della tecnologia raccontata a bambini e non, più volte sono incappato in luoghi straordinari per chi voglia comprendere, o anche solo godere, della storia del nostro pianeta; in altre parole, dei veri libri di geologia a cielo aperto. Siti primordiali e deserti, dove la terra si denuda e racconta le proprie memorie, concedendoci di guardare in profondità, fisicamente e nel tempo, e di riempirci gli occhi con l’incanto dei colori.

Il mio bambino più piccolo ha una vera passione per i minerali (e per gli insetti, le stelle, la geografia, i vulcani, il Dr. House, etc) e questo mi ha spinto ancora di più a cercare e valorizzare le destinazioni del nostro Paese in cui trionfano il nero vetroso dell’ossidiana, il grigiore plumbeo dei calanchi, la luccicanza (oddio! Shining!) delle piriti, la polvere rossa dell’ossido di ferro, il candore delle pomici, il giallo dello zolfo. Oggi ve ne racconto alcuni, rimandandovi al libro – e soprattutto a una gita fuori porta! – per tutti gli altri. Ne ho raccolti e descritti a decine.

1. L’argilla dei calanchi

Mi ha sempre colpito il fascino doloroso di un paesaggio segnato dai calanchi, così comune in Italia eppure così bello in ogni stagione. Sarà che io nei calanchi – aree collinari ricche di argille, segnate da fenomeni di erosione per effetto delle acque – ci sono cresciuto in mezzo. Quando ero bambino, quelli lungo la fondovalle del fiume Panaro, vicino a casa mia, erano teatro di avventure, giochi, scalate, immaginando improbabili fughe da qualche nemico. Una volta, in piena guerra del Golfo, piantai pure una grande bandiera rossa sulla cima di un calanco, che richiamò l’attenzione di una pattuglia di carabinieri solerti. Poi non successe nulla e la bandiera è rimasta là fino a che non è marcita.

Dove trovare i calanchi più belli, magari disseminati di fossili a celebrare un tempo lontanissimo in cui tanta Italia era sotto il mare? Consiglio, in particolare agli appassionati di fotografia, di andare a vedere quelli che circondano Canossa, nell’Appennino Reggiano, dove troverete le vestigia di antichi manieri legati alla mitica figura della contessa Matilde (la bella foto di copertina di questo pezzo, opera di Giorgio Galeotti / commons.wikipedia.org, ben rende il fascino dei calanchi di Canossa); c’è poi il bel Parco regionale dei Gessi Bolognesi e dei Calanchi dell’Abbadessa, sulle colline bolognesi. Infine, i più belli di tutti, a mio avviso: i Calanchi Lucani, nella zona sud-orientale della Basilicata, che lo scrittore Carlo Levi così descrive:  “argilla bianca senz’alberi e senza erba e da ogni parte non c’erano che precipizi d’argilla bianca, su cui le case stavano come liberate nell’aria”.

2. Parco tecnologico e archeologico delle Colline Metallifere grossetane

Siamo nella zona più meridionale dell’Antiappennino toscano, tra rilievi plasmati nei secoli dalle mani dell’uomo, che dai tempi degli Etruschi ha cercato di mettere le mani sulle considerevoli ricchezze – in termini minerari, s’intende – celate nel sottosuolo. Pirite, blenda, lignite, allume, galena… Uno scrigno di tesori alle porte della Maremma, per cui si è sviluppata una complessa rete di siti industriali, oggi dismessi, le cui fascinose vestigia segnano il territorio: pozzi, teleferiche, linee ferroviarie, depositi di scorie abbandonati e silenziose miniere, calate in un’atmosfera di grande bellezza paesaggistica. Andateci e non ve ne pentirete. I comuni coinvolti nel Parco sono sette: Montieri, Follonica, Roccastrada, Massa Marittima, Scarlino, Monterotondo Marittimo e Gavorrano. Sempre in zona, c’è tutta l’area toscana legata alla geotermia, misteriosa e un po’ spettrale, con la centrale di Larderello (Pisa) – la prima al mondo – il Museo della Geotermia e tutta una serie di siti da non perdere, tra cui il Parco naturalistico delle Biancane, con soffioni, fumarole e sbocchi di vapore coronati da cristallizzazioni di zolfo.

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Foto: commons.wikipedia.org

3. Grotte di Castellana

L’Italia in quanto a grotte non è seconda a nessuno. Pensiamo a quelle friulane o alle Grotte di Frasassi, in provincia di Ancona. Oggi però vorrei citarvi le altrettanto famose Grotte di Castellana, nel territorio del comune omonimo in provincia di Bari. Sono tra le più spettacolari del nostro Paese. La visita si snoda su un percorso di alcuni chilometri tra canyon, laghetti scintillanti, stalattiti e stalagmiti che paiono opera di un artista. La caverna finale, detta “Grotta bianca”, è uno splendore di candide concrezioni, che ne fanno una delle più belle al mondo. Se avete dei bambini con voi, usciti dalle grotte porteli al Parco dei Dinosauri, dove potranno ammirare diverse riproduzioni dei grandi rettili estinti.

Grotte_Castellana_(5) Foto: commons.wikipedia.org

4. Piramidi di roccia del Renon

Gli Altoatesini le chiamano Lahntürme, ovvero le torri delle frane. Sono delle curiosità geologiche uniche nel loro genere, che ricordano in piccolo i camini delle fate in Cappadocia, e derivano dall’erosione di depositi di origine glaciale, con presenza di ghiaia e massi immersi in sedimenti fini ricchi di limo. L’erosione causata dal passaggio delle acque scava via via solchi più profondi, separati gli uni dagli altri da creste aguzze, che lentamente vengono erose. In Alto Adige trovate le piramidi di terra in varie località, ma le più famose sono vicino a Bolzano, sull’altopiano del Renon. Il colpo d’occhio su queste formazioni grigiastro-dorate, che si stagliano nell’azzurro del cielo fra gli abeti, è ovviamente notevole.

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Foto: K. Weise / commons.wikipedia.org

5. Gran cratere della Fossa – isola di Vulcano

Non voglio andare per il sottile: al di là delle amenità di natura geologica, quello che si ammira dal cratere dell’isola di Vulcano, nell’arcipelago delle Eolie, è uno dei panorami più belli del mondo (vi assicuro che ho avuto la fortuna di vedere un po’ di posti). Tra l’altro, questo cratere è probabilmente tra i più accessibili in assoluto: con una bella passeggiata di un’oretta vi trovate sulla cima e potrete percorrerne tutta la circonferenza, godendo di uno scenario “da giù di testa”, come diciamo qui in Emilia. Immaginate un mare color cobalto, puntellato di isole, con Stromboli sullo sfondo e, da parte opposta, la mole dell’Etna di solito incorniciata da qualche nuvola di passaggio. A parte questo, per modo di dire, il Gran cratere della Fossa è celebre per i suoi campi di fumarole, circondanti da bellissimi cristalli di zolfo. Peccato non poterne portare a casa un frammento per ricordo: al di là del fatto che non si può, ci lascereste la mano, data la temperatura dei vapori mefitici. E visto che siamo in tema vulcani e geologia, sull’isola vi aspetta una suggestiva spiaggia di sabbia nera, delle pozze di fango termale tiepidine al punto giusto insieme alla “valle dei mostri”, dove la lava di una vecchia eruzione ha generato strabilianti formazioni di basalto.

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La foto di copertina è di Giorgio Galeotti / commons.wikipedia.org

Bologna, città adottiva

Con la salita al santuario della Madonna di S. Luca per un doveroso ringraziamento, concludo il mio anno dedicato all’esplorazione della città per il nuovo libro

E così la mia avventura alla scoperta dei segreti di Bologna è terminata. Ho perso il conto dei chilometri percorsi e delle foto scattate durante questo meraviglioso viaggio a due passi da casa, durato quasi un anno, per scrivere la guida fotografica della città che uscirà a inizio 2021 per l’editore EMONS.

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Per me che sono modenese, Bologna è sempre stata un po’ la bella ragazza della porta accanto che vedi andare e venire, di cui senti la voce al di là del muro, che vorresti conoscere ma – a quanto pare – è troppo per te. Quando ero adolescente andare il sabato a Bologna equivaleva a lasciare la campagna per ritrovarsi in una città vera, piena di movimento e di opportunità, di colore e di gente diversa. Già la stazione dei treni, ai miei occhi di futuro interrailer incallito, sembrava una porta spalancata verso chissà dove.

Purtroppo non ho avuto neanche la fortuna di fare l’università nel capoluogo emiliano: ho studiato a Modena, dove c’era e c’è tuttora un ottimo corso di laurea in fisica. Non dico l’invidia per gli amici e in genere per tutti i coetanei che hanno trascorso sotto le due Torri gli anni della giovinezza, tra appartamenti multifunzionali e pluricondivisi, pub, locali, musica, centri sociali e impegno politico. Insomma, tutto quello che ho sempre desiderato. Come tanti ventenni emiliani, ho passato anch’io la fase “cantautori impegnati”, e in quei tempi la colonna sonora delle mie meditazioni e delle serate in auto con gli amici era il maestrone Francesco Guccini, che abitava a Bologna in via Paolo Fabbri 43 e bazzicava spesso alla Trattoria Da Vito. Così anche noi andavamo Da Vito, sperando di incontrarlo, ma niente: ci andava sempre quando noi avevamo deciso di fare altro. Per non dire del Roxy Bar, identificato da tutti (erroneamente, pare) come quello citato da Vasco Rossi in “Vita spericolata”. Vasco non l’ho mai visto, ma ogni tanto ci ho fatto una scappata, perché non si sa mai.

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Poi succede che un editore mi regala il pretesto per conoscere tutti i misteri della ragazza sconosciuta, proprio lei, la città dirimpettaia. Che regalo, accidenti. E così sono partito è rientrato mille volte, esplorandone gli angoli e i sentieri, assaporandone le luci, le ombre e le storie. Ho perso il conto (in realtà ce l’ho in un file excel) delle persone che mi hanno aperto le porte delle loro attività, dei musei, delle associazioni e dei circoli, in quest’anno di lavoro. Gente splendida, che senza troppi giri di parole mi ha mostrato ogni volta quanto Bologna sia accogliente, buona e generosa, anche nel momento della difficoltà. Ho vissuto il magone della città deserta e spoglia, ma comunque scintillante e magnifica, durante i giorni del lockdown. Piazze tirate a lustro che riflettevano il cielo e tanto silenzio ovunque, che in via Capo di Lucca si sentiva nitidamente la cascata del canale delle Moline. E l’ho vista ripopolarsi un po’ alla volta fino a ieri, quando piazza Maggiore mi è apparsa nella sua veste estiva con l’immenso schermo per le serate del Cinema Ritrovato.

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Oggi, che è tempo di ringraziare, ho deciso di farlo salendo sulla torre degli Asinelli, lungo la vertiginosa scala di legno, per abbracciarla tutta dall’alto; ed era rossa come sappiamo, un bassorilievo di terracotta tessuto di chiaroscuri che si staglia nella foschia azzurra. Ho passeggiato nuovamente per via dell’Inferno e via Valdonica, nel ghetto, lì dove i portici sono bassi, tortuosi e in inverno, quando sale il freddo della nebbia e le ombre si allungano, le atmosfere diventano quasi noir.

Il mio grazie finale è stato il classico cammino fino al santuario di S. Luca, sotto al lungo porticato color del tramonto, dove il susseguirsi degli archi regala prospettive davvero incredibili. Arrivato nel santuario, ecco il consueto senso di pace, serenità e armonia. E mi sono coccolato per un po’ Bologna, città finalmente adottiva, che riposa a piedi delle colline, affacciata sull’orizzonte verdastro della pianura. Per il resto, ci vediamo in libreria nel 2021.

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Ciliegi fioriti in una stanza

Di solito, in questi giorni, vado a camminare vicino al nostro fiume, il Panaro. Oppure risalgo sulle prime colline, quelle che vedo dalla finestra di casa, all’ombra del monte Cimone lontano, ancora un poco imbiancato dalla neve. Sono quarant’anni che vivo qui e ogni volta mi stupisco, in primavera, per quanta luce scorra sui prati ritessuti di fresco, sommersi da un’invasione di fiori color limone. Succede anche d’autunno per i vigneti del Lambrusco che rosseggiano nelle loro trame, ma tra marzo e aprile la terra riversa al cielo un’energia abbacinante, e non desidero di essere altrove. Oggi che il sole mi invade la stanza, tirandosi dietro un profumo che porta all’infanzia, penso ai ciliegi della mia Vignola. Qualcuno lo riesco a spiare anche dalla finestra, ma i più belli e vecchi sono fuori portata: lungo il letto fertile del fiume, appunto, o troneggiano sparsi come candide capigliature nei campi, vicini ai fossi, lungo le strade, impreziosite di petali al primo colpo di vento.

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Le gente viene da lontano per rifarsi gli occhi con la nostra fioritura e vedere la Festa che il mio paese le dedica da oltre 50 anni; adesso è tutto fermo, rimandato… Chissà. Eppure mi rasserena la divina indifferenza della natura alle nostre sciagure. Facevo caso, stamattina, mentre portavo in strada il bidoncino dei rifiuti, al ronzio delle api che vorticano attorno agli alberi o tra i rami di una grossa pianta di rosmarino, ovviamente fiorita; l’erba lunga del nostro parchetto, anch’essa un trionfo di fiori, e fiori ovunque ed escrescenze vegetali sul marciapiede, sul selciato, in ogni angolo libero senza la nostra mano che provvede a orientare e ripulire. Un caos che è un trionfo e strappa un sorriso.

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I ciliegi imbiancano in ogni stanza dove riusciamo a chiudere gli occhi e sentirci in pace. I ricordi bastano, le mie colline coi cipressi, i casali, i calanchi color metallo e i boschi appena oltre le case, nella foschia di mezzogiorno, consolano e fanno compagnia da lontano. Anche il bello che riscalda alle nostre spalle ha un suo sapore buono: teniamocelo stretto, aspettiamo, facciamo quel digiuno che è togliere per dare spazio. Questo ritorno all’essenzialità, mentre la primavera giunge a rinnovare il mondo e la sua voce sommerge le nostre quarantene, può raccontare di quanto potere siano capaci le nostre anime, se ben orientate e ripulite con cura da ciò tutto che disavanza.

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