Italia coast to coast

In cammino dal Tirreno all’Adriatico, nel cuore del Bel paese

È un annetto che ho riscoperto la bellezza di camminare. Da bambini questa è una delle grandi conquiste insieme al linguaggio, poi accadono un sacco di distrazioni che ti portano a dimenticare l’arte di stare in piedi, nella sua versione più dinamica.

Oggi faccio decine di chilometri alla settimana, semplicemente evitando di usare l’auto. Mentre cammino – per andare in centro, in biblioteca, a fare piccole spese, etc – osservo, leggo, penso, prego, dormo, mangio. Si può essere tranquillamente multitasking, senza il rischio di ammazzare qualcuno. Non esiste stress, anche se il sole ti picchia sulla fronte o le moto sfrecciano sulla strada, lacerando il silenzio.

Sto ritrovando, proprio come i bambini, la gioia di rivedere un certo papavero sulla scarpata ferroviaria, quella di salutare il cane che non ti vuole tra i piedi, lo stupore nel riconoscere una cicala sull’albero, panciuta e mostruosa. Siccome chi cammina viaggia con tutto il corpo, non è necessario andare lontano: la dimensione è assai più profonda e dilata di suo le distanze.

Ho comprato da subito molti libri su cammini, spulciando in giro e chiedendomi quale fosse il più bello in Italia. Va detto che il nostro paese non è a misura di camminatore, nonostante sia stato fin dall’antichità terra di pellegrinaggi. Il fatto è che camminare in Italia diventa presto costoso: il problema fondamentale è l’alloggio, visto che non esistono ostelli diffusi e a prezzi popolari, a differenza che in Spagna o in Francia. È un peccato, date le potenzialità del territorio. Pensiamo alla via Francigena, alla via degli Abati, al Cammino di Assisi o alla più recente via degli Dei, tra Bologna e Firenze. In tutti questi casi dormire a prezzi accettabili (non 40 Euro a testa!), soprattutto in estate, è un’utopia. Teniamo conto che sul Cammino di Santiago con 30-40 Euro al giorno fai tutto (anche mangiare). Inoltre, non puoi chiedere al pellegrino di prenotare in anticipo: il bello è proprio potersi fermare quando le gambe non ne hanno più. Rimane la tenda, ma non tutti se la sentono.

Premesso questo, ritengo che uno dei cammini più straordinari che si possano fare in Italia sia il Coast to Coast tracciato da Simone Frignani, grande scopritore e disegnatore di percorsi alla scoperta del bello e del buono. Tra l’altro Simone è un mio conterraneo, anche se non ho il piacere di conoscerlo.

Il Coast to Coast che ci propone è ben descritto nell’omonima Guida di cui è autore, edita da Terre di Mezzo, e a cui è associato un sito internet da cui si possono scaricare le tracce GPS (gratis). In breve tempo, grazie al passaparola e alla cura con cui Frignani ha delineato il percorso, si è creata una bella community di viandanti pronti ad attraversare l’Italia, chi a piedi e chi in bici, e a condividere l’esperienza sui social.

Riporto giusto alcune note sull’itinerario, invitando chi volesse saperne di più a consultare il sito web, la pagina Facebook dedicata o ancora meglio la Guida stessa. Si parte da Orbetello, in Toscana, per raggiungere Portonovo nelle Marche, ai piedi del monte Conero. Ovviamente il tragitto è fattibile pure in direzione opposta. Sono 18 tappe a piedi o 9 in bicicletta, su mulattiere, sentieri e stradine, per un totale circa 400 km.

Il Coast to Coast regala una panoramica su alcuni degli scenari più affascinanti e celebri del nostro paese: dall’Italia etrusca, coi borghi del tufo di Sorano, Pitigliano, Sovana e Orvieto, all’attraversata del cuore verde della Penisola – l’Umbria – per poi fare un tuffo nella spiritualità, col tratto da Assisi a Portonovo. Non lontano dal capolinea, infatti, si trova Loreto, in cui sorge la Basilica della Santa Casa di Maria.

Se pertanto avete 3 settimane e la voglia di immergervi anima e corpo nella bellezza che fa bene allo spirito, mettete lo zaino in spalla e incamminatevi lungo un percorso dal nome capace di evocare suggestioni tutte americane. Vi aspettano la Maremma toscana, i monti Sibillini, l’azzurro di due mari e il meglio dell’arte medievale. Oltre, naturalmente, a un silenzio terapeutico.

In cammino da Ravenna a Loreto

200 km a piedi lungo la costa adriatica per raggiungere il Santuario della Santa Casa

Per camminare bene bisogna non stare a guardare l’orologio, né il contapassi. Anzi, meglio non averlo proprio un contapassi perché distrae e, seppure senza troppo clamore, popola il pensiero, togliendo il piacere di assistere alla propria mente che piano piano si svuota del superfluo.

Mi ricorderò del 2018 perché in quell’anno appena trascorso ho imparato a camminare. Sia chiaro, i miei sono passi di bimbo e pertanto soggetti a incidenti di percorso, cadute e bernoccoli, come ogni principiante che si rispetti. A camminare, soprattutto in questo mondo che scorre alla velocità degli elettroni e il rumore di fondo è peggio di un acufene, siamo tutti principianti. Neanche si parlasse d’amore, citando David Foster Wallace.

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Così, da bravo principiante, sono partito da Ravenna a piedi in un giorno torrido di giugno, per arrivare a Loreto solo 6 mesi dopo. Anche se si tratta di 200 km, mi rendo conto che impiegarci 180 giorni è un po’ una comica: il mio contapassi avrebbe segnato tipo 1,1 (periodico) km al giorno. Roba che ti tamponano le lumache. In realtà è andata un po’ così e un po’ no. Avevo scelto Ravenna per la sua bellezza. La luce dei mosaici, le splendide basiliche paleocristiane che chissà quante preghiere hanno accolto in più di 1500 anni, i miei ricordi di bambino – ci ero andato in gita alle elementari per la prima volta – e non ultimo per avere negli occhi quel miracoloso tetto di stelle che avvolge il mausoleo di Galla Placidia, testimonianza unica di una visione serena della morte, popolata di astri, con la stella polare che trova i contorni della Croce e accarezza lo sguardo in un abbraccio materno.

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È stato il mio primo cammino ed ero solo in una Riviera piena di gente. Noi emiliani – si veda il film “Da zero a dieci” di Luciano Ligabue – abbiamo un legame viscerale e irrisolto col mare di Romagna: ai più fa schifo, ma poi ci tornano malinconici, specie d’inverno; altri lo amano e ovviamente ci tornano pure loro, solo più spesso, e quando capitano su queste spiagge sconfinate in dicembre, e incontrano uno di quelli che pur odiando la Riviera è lì che passeggia e respira lo iodio, i due si riconoscono in un sorriso perché stanno entrambi ripensando alle proprie nonne, nel loro castigato costume intero, e al profumo pannoso della crema solare.

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Mi ero dato circa otto giorni per arrivare alla Santa Casa di Loreto, per me uno dei santuari più importanti che ci sia: è dedicato infatti alla famiglia, si trova in un bel posto alle spalle del monte Conero e, sul conto, la Madonna di Loreto è idealmente la protettrice dei viaggiatori. Almeno, di quelli dell’aria; siccome ho pure paura di volare, mi indica la strada. Ho quindi raggiunto Milano Marittima da Ravenna camminando su una fra le belle ciclabili d’Italia, attraverso l’antichissima pineta di Classe; pare di essere fuori dal mondo, completamente calati in uno scenario verdeggiante tra campi di girasole, acquitrini, canali e aroma di resina nell’aria. Vi consiglio di percorrerla, se non avete ancora avuto l’occasione. Da Milano Marittima ho camminato fino a Torre Pedrera (una frazione di Rimini) passando per la Chiesa di San Giacomo a Cesenatico, con l’idea di legare idealmente il mio cammino al più celebre cammino di Santiago, sperando di fare presto pure quello. Quindi Cattolica, il faticoso Monte San Bartolo per arrivare a Pesaro e di seguito Fano, Senigallia e Falconara Marittima. Da Cattolica in avanti il mare mi ha incantato coi suoi colori: spiagge di ciottoli bianchi senza quasi nessuno e acqua dalle sfumature turchesi che mai avrei immaginato. In realtà c’ero già stato mille volte, ma forse di fretta. Camminando si ha tempo per accarezzare i dettagli con lo sguardo.

Ed ecco il fuoriprogramma. A causa di un insieme di motivi, in primis il caldo afoso, l’asfalto e la mia inesperienza, mi sono fatto male. Delle banali vesciche ai piedi, seppur disinfettate e protette con gli appositi cerotti (ma anche ammollate per ore ogni sera nell’acqua di mare), si sono infettate in poche ore diventando piaghe. Per rimanere in tema spirituale, a Falconara Marittima, 40 km dalla meta, mi sembrava di camminare con le stimmate. Ho preso il treno e sono tornato a casa. C’è voluta una settimana di medicazioni, antibiotici e riposo. Però nel cuore avevo una grande serenità.

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Esiste un’antica preghiera che recitano i pellegrini diretti a Loreto. Io ho pensato di continuare a recitarla ogni giorno, come se fossi ancora in cammino. Sono andato in vacanza con la famiglia, ho ripreso il lavoro, l’ho pure cambiato, sono arrivati l’autunno e quindi il Natale, ma quella preghiera di poche righe mi ha fatto compagnia per sei mesi. Chissà: forse non ero pronto per raggiungere Loreto o forse era necessario che lo desiderassi a lungo, come tutte le cose importanti. In quei sei mesi ho meditato, letto libri, ripensato alle tante intenzioni di preghiera momentaneamente “congelate”, che la gente mi aveva lasciato perché le conducessi con me al santuario.

Il 27 dicembre siamo ripartiti da Falconara Marittima per concludere il viaggio lasciato in sospeso. Dico “siamo” perché non ero solo: il dono del “fuoriprogramma” è stato concedermi di terminare il cammino con mia moglie, che in estate non aveva potuto accompagnarmi. È bello mollare gli ormeggi da soli e arrivare insieme.

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Non c’era nessuno in Riviera. Silenzio, mare calmo, gente che passeggiava infagottata portando il cane. La salita al Conero, spazzato da un vento pungente, è stata faticosa e appagante. Il terzo giorno, finalmente, sono comparse le cupole della Basilica di Loreto. Leggenda vuole che all’interno sia custodita la Casa di Maria, con la finestra da cui l’angelo le diede il ben noto annuncio (o, meglio, le parlò di un meraviglioso mistero chiedendole un sì). La Casa, dopo un rocambolesco viaggio, sarebbe arrivata sul colle di Loreto non prima di fare una sosta (lo so, fa sorridere) alla periferia di Ancona e alle falde del colle stesso. Non sapevo di questi due luoghi, ma un insieme di coincidenze ci ha portato a deviare il nostro cammino e a passare per entrambi i posti, su cui sorgono un paio di chiesette.

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Dopo la Messa nella Basilica e un pomeriggio di riposo, il ritorno in treno per la seconda volta. Ho pensato di tornare a Loreto negli anni futuri, sempre a piedi e cambiando ogni volta tragitto, e senza tempistiche né programmi. Forse la verità si nasconde proprio in questo: nella disponibilità ad accogliere il fuoriprogramma, cedendo il controllo del tempo e della nostra strada, in un’attiva e gioiosa passività.

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Lourdes

Le piscine di Lourdes sono silenzio e umanità. Tutta l’umanità trascina il proprio credo uguale e differente e scende china a bagnarsi, lasciando gli abiti, venendo avanti piccola e trepidante…

Il miracoloso senso della nudità riempie le piscine e la nudità si disseta nella preghiera. Forse è quello che tratteniamo da qualche parte nei sogni, ombra buona della nostra vita prenatale.

Le piscine sono silenzio e umanità. Tutta l’umanità trascina il proprio credo uguale e differente e scende china a bagnarsi, lasciando gli abiti, venendo avanti piccola e trepidante, salendo i primi due gradini da sola, fino al terzo, dove ci porgono le mani. Io rimango qui, sul bordo, allungo la mano, guardo il mio compagno dal lato opposto. Si chiama Gerard, so solo quello; lui sa di me il mio nome e mi guarda e sorride. Non abbiamo mai sentito le nostre due voci. Fuori da qui non lo riconoscerò, ma ricorderò la sua presenza come parte di un tutto misterioso.

L’umanità malata si fida di noi. Ci sono i Cristiani, gli atei, i miserabili, gli indecisi, i preziosi; si riconoscono quelli che hanno riconsegnato la fede più di quelli che la custodiscono al riparo. Ma gli abiti sono fuori con le scarpe e i mezzi di locomozione. Qui si viene sempre con le gambe – siano le nostre o le loro, non ha importanza – e lasciati i vestiti. Non credo che in questo luogo l’umanità covi chissà quale speranza. La speranza fa luce, ma la luce dei nostri occhi è diversa: è una luce lontana, più antica, il silenzio che brilla come un abito nuovo, che era piegato in un luogo a parte.

Io e Gerard accompagniamo nell’acqua. Distendiamo per pochi istanti la persona nella piscina, solo quando lo desidera e fa lei il primo passo. Pochi istanti perché l’acqua di Lourdes è così come nasce – fredda – e sempre quella. Chi crede in un’acqua esoterica dai poteri terapeutici resti pure deluso. Sgorga semplicemente dalla terra, bagna, ha un ottimo sapore, si sporca, evapora, bolle a 100°C se scaldata. Non ha potere in quantità misurabile come non è misurabile la mitezza di un gesto né la trasparenza di un pensiero. Anche noi che accompagniamo in piscina siamo trasparenti, vogliamo essere solo due mani e un sussurro. Non abbiamo nomi da sigillare sui corpi nudi di quell’umanità che si affaccia sulla pietra grigia, scostando la tenda, né riconosceremo qualcuno fuori di qui, sul prato dove la gente canta e passeggia, tuttavia ognuno ricorda chi lo ha immerso e noi ricorderemo la persona che abbiamo incontrato, immagini belle e tristi, qualcuna appesantita dall’inquietudine per un prodigio che non arriverà, perché Dio non toglie il male, ma lo sopporta insieme a noi. Però ci intristiamo anche noi ombre, con le nostre inutili mani bagnate, quando l’amarezza ribolle negli occhi dell’umanità.

Ogni uomo nell’acqua è la metamorfosi di uno sguardo. Trema per il contatto e immagino un rapido alone al neon, verde non so perché, che passa dai piedi ai capelli, da cima a fondo, senza produrre fotocopie ma incitando all’intuizione, poi la cosa è compiuta e lo alziamo in fretta, accompagnandolo indietro perché non scivoli. Arriva un anziano che severamente prega per la Francia e parla tanto, rivolto alla Madonna, quindi scruta anche noi, cercando conferma, ed io da ombra che sono riprendo nome e provo vergogna. Caliamo diverse barelle e quegli uomini sono pieni di sguardi immobili, vedono tutto, hanno occhi che faccio fatica a sostenere. Entra un’intera famiglia di Irlandesi, due fratelli coi loro figli, è un momento di festa, ci stringono la mano, e i papà prendono il mio posto e quello di Gerard e immergono i loro ragazzi, tutta la gioia si condensa lì per un istante, tutto va bene, anche noi siamo un pezzetto di quella famiglia spirituale.

Quando finisce il turno le braccia fanno male e le squadre si sciolgono. Ci diamo la mano e uscendo non lavoreremo più insieme. Non che sia una regola: è solo l’effetto del caso quando sono tanti gli operai. Consegno la divisa e il grembiule blu coi ricami rossi. Non mi commuovo mai perché non ho ancora ben compreso come siamo fatti, che sono le cose piccole che commuovono, quelle grandi che fanno disperare, mentre la testimonianza di un fatto meraviglioso libera dal male e abbandona a un’inconsueta leggerezza.

Fuori dalle piscine scorre il Gave, dividendo un prato pieno di gente dal fianco della montagna. C’è sempre un calore che non mi spiego. Nasce forse dalla tenerezza di questi continui prodigi che avvengono mentre a casa lavoriamo, camminiamo, dimentichiamo, e avvengono ogni momento, indicando poco più di un rigagnolo che non si estingue. Forse è la via lungo cui scorre la tenerezza di Dio. Il fine non è sciogliere tumori, raddrizzare arti o ricostruire i nostri corpi. È solo indurre all’amore.

Foto: wikipedia.it

#Ravenna2Loreto: di nuovo in cammino tra Romagna e Marche

Un cammino di oltre 200 km tra Ravenna, culla del Cristianesimo, e il santuario mariano di Loreto, nelle Marche

Con l’essenziale addosso e spero anche dentro di me, riprendo il cammino. L’essenziale non solo sta in poco posto, ma libera lo sguardo, trasfigurando incontri e paesaggio; imparare a camminare, invece, ha ormai un valore sociale, in questo nostro mondo a fibra ottica che misura la velocità in Giga. È un approccio profondamente umano.

Sabato 23 giugno – piacendo a Dio, come si dice – raggiungerò in treno Ravenna, culla del Cristianesimo con le sue splendide e antichissime basiliche. Dopo qualche ora di decompressione per dare spazio al silenzio e riempire gli occhi con la luce dei mosaici, partirò a piedi alla volta di Loreto, in provincia di Ancona, dove si trova il santuario mariano più famoso d’Italia.

L’itinerario è un po’ in divenire, ma dovrei iniziare toccando la pineta di Classe, già presente ai tempi di Dante, per poi raggiungere la costa nell’omonimo lido. Da qui il viaggio procederà verso sud, lungo piste ciclabili, sentieri, tratti di spiaggia e spero poca SS16 Adriatica. Costeggerò le saline di Cervia, tra fenicotteri rosa e vecchi fabbricati, Cesenatico col suo splendido Porto Canale Leonardesco e la Chiesa di San Giacomo Apostolo – per affratellare idealmente questo mio cammino a quello di Santiago – poi la Rimini di Fellini, dove inizia la Via Emilia, la Riccione del divertimento fino a Gabicce, all’ombra del castello di Gradara.

Da qui, entrando nelle Marche, la prima “tappa di montagna”, con la salita a Monte San Bartolo per ridiscendere a Pesaro. Avanti fino a Marotta, poi nello splendido entroterra marchigiano, col borgo di Mondolfo, uno dei più belli d’Italia. Rotta quindi in direzione Ancona per arrivare al Duomo, poi la salita al Monte Conero, da cui si ammirano alcune delle spiagge più belle d’Italia. Di nuovo l’entroterra: Camerano, Osimo, Castelfidardo e infine Loreto, con l’ingresso nella Basilica della Santa Casa.

Racconterò tutto qui, sulla pagina Facebook dedicata a Ditantomondo e su Instagram, dove potete vedere le immagini cercando sempre “Ditantomondo”. E se qualcuno vuole idealmente camminare insieme a me, mi scriva in privato consegnandomi la sua intenzione di preghiera. La porterò a destinazione, nel cuore della terra marchigiana, sotto le cupole che racchiudono – dice la tradizione – la Santa Casa di Nazareth dove visse Gesù e dove Maria ricevette l’Annunciazione.

Camminando verso l’antica Abbazia di Monteveglio – Bologna

Un pellegrinaggio silenzioso, immersi nella bellezza della primavera, portando idealmente le preghiere di tutti

Partiamo. Stavolta siamo in due: io e mia moglie. Considerando la strada che abbiamo scelto, fuori mano, tutta su e giù per le colline tra Modena e Bologna, ci aspettano quasi 20 km. Con due tappe intermedie: il borgo di Savignano sul Panaro, grazioso nella sua parte nuova per diventare notevole quando si guarda al nucleo medievale, e il pressoché sconosciuto Montebudello (curioso come nome, vero?).

L’Abbazia di Monteveglio, sui colli bolognesi, è un gioiello romanico dedicato a Santa Maria Assunta. Venne eretta su volere di Matilde di Canossa. Il luogo è un nido per l’anima, soprattutto durante la settimana e nei mesi invernali, dove non c’è mai nessuno e sembra di fare quattro passi in un’altra vita. Dovete venire a conoscerla, se passate nei dintorni. Come nel tipico scenario italiano che illumina le tele di tanti dipinti, immaginate la classica altura coronata da prati verdi, cipressi e querce. Sulla cima, un borgo dove vivono pochi eletti, con un torrione all’ingresso. L’unica strada acciottolata arriva direttamente all’Abbazia tra due ali di case, alcune disabitate, e un Oratorio circondato dalle rose. Trovate anche un’osteria, dove dicono si mangi molto bene.

Annesso all’Abbazia c’è un convento francescano. Una volta mi è capitato, per qualche festa che non ricordo, di vedere i frati all’esterno, in formazione rock, pronti a cantare: chitarra al collo, batteria, microfoni. Purtroppo me ne sono dovuto andare prima dell’inizio e ho mancato il repertorio. Appena si entra in chiesa, lo sguardo scivola a destra, verso la bella cripta, con un fonte battesimale ricavato da un’unica pietra, quindi al grande crocefisso, dove Gesù pare sempre soffrire in pace, dormendo. E spesso ci fermiamo lì, alla dolcezza di un uomo che dorme, il capo reclinato, senza risposte né redenzione, quando i discepoli scappano via. Più lontano, sulla parete, un campanello e un bigliettino: “Chi suona per confessarsi non di disturba mai”. Perché in effetti – altro nodo scorsoio – tutti abbiamo paura di disturbare, creare imbarazzo, affidarci.

Anche stavolta ho scritto sui social che avrei camminato. Anche stavolta arrivano messaggi e richieste di preghiere. Sorrido, leggendo spesso: “Se sono ancora in tempo, ti chiederei…” In effetti il tempo è un altro nodo universale. Una di quelle ricchezze che non ci appartengono e vanno bene amministrate. Possiamo riguadagnare i soldi spesi, diventare molto ricchi o piombare nella miseria grigia, mentre non è possibile guadagnare tempo, né accumularlo per avere gli interessi. Renderlo d’oro, invece, sì. E questo è tutto.

Mentre camminiamo la mente si libera, a mano a mano che sale una stanchezza buona. Tutta la bellezza attorno è di grande aiuto. Non avrei mai pensato che dietro casa mia ci fossero tante querce e lapidi che raccontano storie. Come quella di un uomo che, nel 1912, venne accecato da “ignota mano assassina” mentre tornava a casa. La sua vicenda è coperta dai rovi, col granito striato dalle bave di lumaca. Direi che è tutto ciò che resta di lui. Allora diciamo una preghiera per quelli che ci scrivono e il cuore subito si alleggerisce. Risuonano più intense, dentro, le grida degli uccelli. Uno dei folli miracoli è questo: condividere, anche solo idealmente, la pena di un altro alleggerisce l’anima.

Quando arriviamo a Montebudello mi accorgo che è Pentecoste. Ci sarebbe la Messa tra venti minuti, ma è tardi, dobbiamo proprio andare. E poi, diciamo la verità, non ho voglia di aspettare su una panca: sto così bene a camminare e mi annoierei per il (santo) fuori programma. Un uomo si accorge di noi e ci chiama. Chiede se vogliamo visitare il campanile e magari vedere suonare le campane, perché si dà il caso che lui sia proprio il campanaro. Mi diverte questo diversivo piovuto dal cielo per far sì che non ce ne andassimo. Allora lo seguiamo: saliamo sulla torre, ci mostra le campane, racconta con passione una storia bellissima. Fuori il panorama spazia sino a Modena, su cui si addensano nubi bianche. Di notte è un mare di luci che fa innamorare. Quando scendiamo, la Messa sta iniziando e dunque non abbiamo scusanti.

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È da un po’ che mi chiedo se sia possibile, su strade secondarie, andare dall’Abbazia di Monteveglio fino al celebre santuario della Madonna di San Luca, che veglia sopra Bologna dal Monte della Guardia. Ci ho guardato distrattamente, ma non ho trovato nulla. Sarebbe un modo per andare avanti a camminare sui colli. Il piccolo tarlo mi accompagna tra un passo e l’altro. E ancora, ripenso a una testimonianza preziosa, conosciuta solo qualche giorno fa. Parlo della storia di David Buggi. Non ve la voglio anticipare, ma davvero, se volete rendere preziosi undici minuti di quel tempo che non ci appartiene, guardate questo video.

Arrivati a Monteveglio, comincia la salita. C’è un sentiero che si inerpica sulla collina, regalando di nuovo un bel colpo d’occhio su calanchi fioriti e montagne. Il sentiero ricalca la strada vecchia, l’unica a salire al borgo prima degli anni ’40, quando venne realizzata una via asfaltata. A un certo punto, ecco una cappella. Io che di solito arrivo in auto appunto con la via asfaltata, è la prima volta che la vedo. Una cappella dedicata, guarda caso, alla Madonna di San Luca. Ripenso alla possibilità di allungare il pellegrinaggio, un giorno, con più tempo a disposizione. Ma come ho detto, non conosco stradine secondarie e poi forse vorrei cambiare zona e poi… Intanto mi tornano in testa le parole di David, che chi vorrà potrà ascoltare nel video di cui sopra, quando dice: “[C’è a portata di tutti] una felicità che dura, che non viene meno. Basta non remare contro”.

Siamo arrivati alla chiesa verso le due del pomeriggio, stanchi e sereni. I messaggi continuano a piovere su Facebook. “Se sono ancora in tempo…”. Una vecchia amica mi dice: “L’altra volta che ti ho visto camminare non ne ho avuto il coraggio, ma stavolta devo chiederti di pregare per…”

Così entro nell’Abbazia. Davanti a me – proprio me lo sento sbattuto in faccia – un cartello. Dice: “Pellegrinaggio a piedi dall’Abbazia di Monteveglio al Santuario di San Luca, Bologna”. Con tutte le tappe, una ad una. Quelle che cercavo. Le risposte alle domande, a un desiderio buono che mi era stato suggerito. Se non è questo un segno!

Però poi mi merito di raccontarvi quel che spesso accade nelle nostre vite. Come direbbe David, i desideri buoni ci vengono suggeriti, ma noi siamo molto scaltri a remare contro. Per inerzia, forse. Quel pellegrinaggio si sarebbe tenuto oggi. Sarei partito col gruppo alle 7 del mattino e rientrato la sera. Avrei trascorso una bella settimana al pensiero di farlo, invece della settimana neruccia che mi è toccata in eredità (piccole sciocchezze come per tutti, ma un po’ la stanchezza, un po’ lo sconforto, un po’ il cattivo umore hanno reso i giorni trascorsi alquanto sfigati). Solo, quel programma non l’avevo deciso io e mi sarei dovuto adattare a tempi e modi altrui. E poi metti che coi figli si fosse pensato a una giornata al mare, o in montagna, o a Parigi; metti che poi piove; metti che mi venga la sciatica, la borsite rotulea, l’ernia fulminante. Metti che…

Invece sto in ottima salute e alla fine non siamo andati a Parigi né a Roma, così su due piedi (Sally docet). Anzi, non ho fatto nulla di questo tempo, a parte la cosa buona – spero – di buttar le parole che state leggendo. Insomma, era la giornata ideale per continuare il cammino nei modi che mi erano stati suggeriti, senza troppe domande a riguardo.

C’è che il prezzo da pagare per farsi del bene è irrisorio, in fin dei conti, nonostante si tratti, ahimé il più delle volte, di quel che ti costa dare, come diceva Madre Teresa di Calcutta. Ad esempio un’inversione di marcia. Una sosta ai box. Un pugno di scuse a un tizio che non sopporti. Non voglio che diate del vostro superfluo, ma di ciò che vi costa, spiegava la Santa.

In altri termini, quel minuscolo sì gettato nel nulla per rispondere a un segno, dove i nostri occhi non vedono che nebbia e magari imbarazzo, vergogna, follia. Ogni vero viaggio inizia così. Se no, forse, è solo turismo dell’anima.

In cammino, per la prima volta

Io non sono mai stato un grande camminatore. Eppure quando il Santuario chiama…

Io non sono mai stato un grande camminatore. Cioè, amo andare in montagna, non mi tiro indietro davanti alla proposta di un’escursione e quando mi trovo in qualche città la giro dalla sera alla mattina a piedi. Come tanti di noi, penso. Ma da sempre sono attratto dalla lentezza che viene associata al camminare. Ritengo anzi che sia la dimensione più umana e vivibile di viaggiare e muoversi. A correre c’è sempre dietro un aspetto competitivo – almeno con se stessi – un obiettivo che ti dai e adesso anche qualche app che aiuta a farlo meglio. Solo che camminando non si arriva molto lontano, a meno di non possedere la più immensa ricchezza di questo mondo: il tempo. Camminano solo i bambini e i re. I re della propria vita, intendo.

Nel cuore ho sempre covato il desiderio di compiere qualche grande pellegrinaggio a piedi. Non dico la Via Francigena, che richiede diversi mesi, ma il Cammino di Santiago sì. Ammetto di sognarmelo di notte. Perché le persone che tornano da queste esperienze le trovo trasfigurate. Se preferite, dei pacifici UFO. Negli ultimi tempi ho avuto modo di ascoltare i racconti e le riflessioni di un amico scrittore, innamorato del Cammino di Santiago. E mi diceva una cosa che poi è diventata un tarlo buono: “Ti rendi conto che a piedi arrivi dove vuoi e che fai parte di una comunità che cammina insieme a te, da sempre. Camminare ha un valore sociale”. Cazzo, pensavo io, come ha ragione.

Veniamo ai fatti, allora. E anticipo che sono un’inezia. Ma davvero, se la stanza è buia, basta accendere una candela e… Miracolo, ci si vede. Così ti riconosci per quello che sei. Quante cose si distinguono, in un luogo buio, grazie a una misera candelina! Diverso è se il nostro cuore fosse già pieno di luce: allora fiammella più, fiammella meno, cambierebbe poco.

A una ventina di km da casa mia, sulle colline, c’è un Santuario dedicato alla Beata Vergine della Salute. Si trova in un borghetto chiamato Puianello. Da là, nelle giornate limpide, lo sguardo arriva lontano: scavalca tutta la Pianura Padana con le sue città, i campi e i fumi biancastri delle ceramiche, fino alle Prealpi. Adesso sono ancora leggermente imbiancate e paiono nuvole all’orizzonte. Ebbene, dovete sapere che all’inizio di quest’anno la mia bambina è stata ricoverata in ospedale. Alla fine nulla di grave, ma ammetto che mi sono spaventato molto e lo testimoniano alcuni miei capelli diventati candidi come la neve delle Prealpi, appunto. Andai al Santuario, dove mi reco ogni tanto quando ho voglia di un po’ di pace, e dissi che se fosse andato tutto bene, sarei salito a piedi da casa mia, per ringraziare.

Sono passati quattro mesi da allora e tutto si è risolto. Ho atteso una giornata di sole per fare il primo cammino della mia vita. Che non è stata una cosa epica, eppure si è trasformata in una meraviglia per l’anima. Erano le sette e mezza del mattino, sabato scorso. Dopo una colazione al bar, mi apprestavo a partire. E lì, davanti a casa – io che bazzico spesso per i social, scrivo, racconto, fotografo, etc. – mi sono detto: “Forse c’è qualcuno che vuole idealmente venire con me. Che ha bisogno”.

Volete sapere che cosa ho provato al pensiero? Imbarazzo. Vergogna. Paura.

Perché di Dio, di Gesù, non si parla in pubblico, a meno che tu non sia un prete. E poi in quel caso guai a farlo in pubblico: meglio un luogo deputato – la chiesa – e a porte chiuse, per non disturbare gli altri. Gesù è tabù, che fa anche rima. Come i debiti e le abitudini intestinali. Pensate che sul conto io sono un fisico, un ricercatore, quindi uno che ovviamente dovrebbe credere, a stare larghi, nella bellezza pura e sublime della matematica, propria solo della più grande arte (cit. Bertrand Russell). E al massimo nello Yoga e in Vasco Rossi (che comunque mi piace moltissimo).

Premesse tutte ‘ste pippe mentali che molto spesso agiscono come un’insopportabile zavorra verso il bene, per definizione leggero quanto l’elio, prima di mettermi in cammino ho preso il telefono, mi sono scusato e ho raccontato su Facebook il mio intento. Ecco il testo del post, copiato pari pari:

“Carissimi amici, condivido con voi una bella cosa, vincendo pure un pochetto di imbarazzo. Come forse gli amici ”più stretti” ricordano, all’inizio di quest’anno la mia bimba è stata ricoverata in ospedale. Alla fine si è trattato di un’infezione ai linfonodi del collo, è andato tutto bene, lei adesso sta benissimo, ma allora ci siamo spaventati molto. Oggi, per ringraziare, mi incammino verso il santuario della Madonna di Puianello, che da casa mia sono tipo 18-20 km. C’è una bella salitona finale dove ci lascerò il fiato perché non sono molto allenato, ma da sopra lo sguardo attraversa tutta la foschia della pianura fino alle prealpi lombarde. Nelle prossime 4-5 ore sarò in cammino. Porto idealmente con me, nel silenzio, chi lo desidera. Se avete qualche intenzione di preghiera, qualche disperazione o ombra nel cuore, mandatemi nelle prossime 4 ore un messaggio privato. Ogni tanto mi fermo e leggo. E consegno tutto insieme ai miei ringraziamenti.”

Sono partito con un senso di liberazione, dopo aver passato l’indice su “Condividi”, cosa che faccio almeno una volta al giorno per raccontare di viaggi, lifestories, cultura, people, libri e sticazzi vari (cit. l’amico Zerocalcare). Però mai come in quel momento mi è sembrato di “condividere” qualcosa con qualcuno.

Alla fine della sua splendida vita, Tiziano Terzani lamentava di aver viaggiato troppo in fretta, guardando il mondo come si ammirano i fiori da un cavallo in corsa. Io conosco a memoria i 18-20 km che portano al santuario di Puianello. Non esagero a dire che, camminando, mi è sembrato di non esserci mai stato. Tutti quei papaveri, anche sul bordo della scarpata e non solo sui campi, che ho avuto modo di ammirare con calma. Ci sono querce e nidi sulle querce e storie appese ai tronchi di questi alberi. Alcune le conoscevo già – di ragazzi morti in tragici incidenti – ma non le avevo mai lette, né avuto un pensiero verso quei fiori di plastica, le lettere degli amici più volte inzuppate dalla pioggia e rinsecchite dal sole. Altre sono storie di vita. Nel 1983 un uomo e una donna, salendo al Santuario, persero il controllo dell’auto e si fermarono addosso a quel benedetto albero X, che evitò la tragedia di finire nella scarpata. E c’è un biglietto che lo racconta. Case che non avevo notato, bambini che adesso hanno un nome, scorci, ciclisti che mi hanno salutato invece di essere una noiosa fila da superare in auto. Tanto silenzio dentro.

Mi hanno scritto a decine, con centinaia di like, e il fatto mi ha lasciato sorpreso. Era tutto un “dlin dlin” dal telefono: prega per la mia famiglia, che sono sempre dietro a litigare; prega perché ho un cancro e forse non vedrò crescere i miei figli; prega per i miei due amici che cercano un bambino e non arriva; prega per Alfie, per la pace nel mondo, per la Siria, per il nostro Paese… Messaggi così belli e commoventi… Mi dispiaceva “non avere tempo” per scrivere almeno una pagina in risposta a tutti. Gente che non conosco che mi ha riassunto la propria vita, le proprie disperazioni. Tutto perché ho detto: Io vado là. Se qualcuno ha qualcosa da chiedere, farò il postino così ci andiamo idealmente insieme”. Ed è consolante vedere che tutti noi abbiamo bisogno di belle cose, di buono, di trascendenza, di affidarci, di sperare, di raccontarci, di vincere quella maledetta pesantezza nel nostro cuore che affossa il bisogno di aprirci agli altri.

Non sapendo come pregare per tutti, mi sono arreso a scegliere la preghiera dei semplici. La più noiosa (si addormentava anche Santa Teresa del Bambin Gesù). Il Rosario. Non avevo una corona con me, allora ho contato con le dita come i bimbi. Ne ho detti tre o quattro. Intanto scivolavano davanti a me i panorami delle colline modenesi, dilaniate da quei calanchi grigi che raccontano di un vecchio mare; il borgo di Castelvetro – per me uno dei più belli d’Italia – circondato dai vigneti del Lambrusco, con le sue torri, il campanile, e i campi che aspettano di maturare nel mese di giugno; la lunga strada che fiancheggia il torrente, quando inizia la salita alle colline, i rovi fioriti e qualche salice che sfiora l’acqua con le dita, che non so perché mi ricorda mia nonna che raccoglieva radicchi (gli strecapògn in modenese), e poi su fino a Levizzano, l’ultima località prima di Puianello, e la via che diventa ripida negli ultimi chilometri.

Arrivato al Santuario, ho guardato la landa padana, azzurra nella foschia. Quell’immensa pianura che sembra arrivare fin dove l’occhio di un uomo poteva guardare, come cantava Guccini. E intanto “dlin dlin” dal telefono: ancora intenzioni di preghiere, da credenti e non credenti – perché non si sa mai, metti che sono in torto, come ha scritto una simpatica signora. E come diceva anche Benigni in “Berlingur ti voglio bene” («Noi si bestemmia, ma se poi siamo in torto?»). Mi sono fermato più di un’ora solo per rispondere una riga a tutti. Ma i messaggi continuavano a piovere. Anche dopo, a casa. Pure la sera a cena. Il giorno dopo. Fino a ieri l’altro. Con la gente che scrive: “Se sono ancora in tempo, ti chiederei…”

“Se sono ancora in tempo”.

Ce l’ho sempre nelle orecchie ‘sta frase.

Quello che state leggendo è un blog di viaggi, turismo il più possibile consapevole, luoghi poco noti, lifestories, cultura, libri da mettere in valigia, Emilia Romagna e ‘sticazzi (cit. sempre Zerocalcare). Da oggi nasce anche la sezione “In Cammino”. Per rispondere alla signora di prima: sì, siete in tempo. Siamo in tempo. Cercherò di continuare a camminare come pellegrino, portando testimonianza. Quando riesco. Viaggi piccoli e spero anche molto lunghi, piacendo a Dio.

È vero: la lentezza ha un valore sociale. Camminare, pregare, condividere i nostri pesi tra sconosciuti, anche solo col cuore e la fede, rivela una forza terapeutica che mi era nota solo in teoria. Ma ci speravo pure in pratica. Così mi dico: Buen camino, come risuona lungo la via per Santiago da più di mille anni.