Magico autunno nelle Terre del Lambrusco

Ogni anno l’autunno, tra queste colline, mi sembra diverso. Incantevole e triste come una melodia che qualcuno reinterpreta. Mi perdo nel parco che circonda l’antica abbazia di Monteveglio, le stradine fuori mano che sanno di pioggia tra Savignano e Vignola, le trame gialle e rosse dei vigneti di Castelvetro.

Foto 3 by Devis Bellucci

Mi sento un bambino tra i bambini, lì a guardare i grappoli coi loro nonni, accanto a quelle grosse casse sistemate nel prato che serviranno per la vendemmia. Certe prospettive, certe geometrie dorate sotto il sole ancora caldo di ottobre hanno il sapore del cioccolato, dolce e sabbioso. Ringrazio che almeno qui, dove il paesaggio è ancora segreto, non dilagano le instragrammers in veste da cocktail e grandi cappelli, intonati con la pelle rubiconda delle foglie.

Savignano sul Panaro - Modena
Savignano sul Panaro – Modena

The morns are meeker than they were –
The nuts are getting brown –
The berry’s cheek is plumper –
The Rose is out of town.

The Maple wears a gayer scarf –
The field a scarlet gown –
Lest I should be old fashioned
I’ll put a trinket on.

I mattini sono più miti di com’erano –
Le noci stanno diventando marroni –
La guancia della bacca è più paffuta –
La Rosa è fuori città.

L’Acero indossa una sciarpa più gaia –
Il campo una veste scarlatta –
Per non essere fuori moda
Mi metterò un ciondolo.

Emily Dickinson, 1858

Cipressi e grappoli d'uva, Campiglio. Ottobre 2016 Rid.
Autunno, Vignola – Modena

Allo Chalet Alpenrose, per raccogliere storie di boschi e antichi masi, nel cuore del Parco Nazionale dello Stelvio

Ecco l’incantevole Val di Peio, in Trentino, raccontata dalla gente che la ama

Il signor Tiziano ci aspetta alle 5.30. Quando ci siamo salutati, la notte prima, il cielo scintillava in un silenzio rotto soltanto dallo scorrere del fiume, poco lontano dallo Chalet. Attorno, l’oscurità buona e rigenerante della natura, senza luci in lotta con le stelle. Poi è iniziato a piovere. Uno scroscio, racconta Tiziano, che avrà aperto torrenti dove non ce n’erano, e cascate. Quando arriviamo noi mentre fa giorno, rimangono i segni dell’acqua che ha divelto la terra in più punti, nel bosco, con una forza che a fatica riesco a immaginare.

Tiziano ci guida nell’anima di questa valle piccola e sconosciuta ai più, ramo intatto della blasonata Val di Sole che passa da Peio (o Pejo). Quella dell’acqua minerale, per intenderci. Nei tre giorni che passerò con lui, lo vedrò in abiti da montanaro come adesso, poi nelle vesti orgogliose del collezionista di arredi provenienti dalle stube, quindi lindo e serio con la sua divisa da chef. Gestisce lo Chalet Alpenrose da vent’anni insieme alla moglie Martina e alla figlia Stefanie, e raccontando di sé si definisce un tirolese di lingua italiana. Ne parla buttando lo sguardo lontano, come di un ricordo d’infanzia, con una vena di malinconia.

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La valle si sveglia e intravediamo le ombre dei cervi che corrono fra i boschi. Ce ne sono centinaia, spiega la nostra preziosa guida. Di notte scendono nei prati attorno alle case, senza timore. Basta una torcia puntata e i loro occhi si accendono come fuochi. Ma più che di cervi, mi incanta sentire Tiziano che parla di stube, i tipici soggiorni alpini, alcove di vita, luce e calore; soprattutto calore, quando come qui l’inverno è lungo e la stube era l’unico luogo riscaldato della casa. La vita conviviale della famiglia si svolgeva tra queste pareti di legno, intrise di odori e saggezza. Tiziano ha battuto a tappeto il Trentino in cerca di questi luoghi della memoria. “Gli elementi chiave della stube tradizionale sono tre”, dice. E io butto lì: la stufa, il tavolo e le sedie.

Sbaglio, ma non so chi ci avrebbe azzeccato. Perché nelle stanze icona del Trentino la stufa è data per scontata, mentre i tre elementi che non devono mai mancare sono l’orologio, il crocefisso e una piccola acquasantiera: il buio oltre la finestra, infatti, era popolato da leggende, streghe e lupi voraci. Allora, ecco la necessità di quel po’ di fede per sostenere la vita e allontanare il male; il resto, in qualche modo, si mette insieme con un po’ di sacrificio. Ripenso alla mia vecchia nonna che più o meno raccontava le stesse cose. Tiziano, qualche ora dopo, ci mostra i pezzi della sua collezione – mobilio, piccoli arazzi, attrezzi da lavoro – che oggi rivivono sulle pareti dello Chalet, regalando un’atmosfera di calda autenticità. Pochi immaginano che tutti quei Cristi in giro, austeri e dolenti, provengano da case che forse non esistono più, testimoniando la storia di un’intera comunità.

“Venite, tocca a me adesso”. Martina, la moglie di Tiziano, ha l’accento tedesco e si presenta portando un cestino di vimini. Non per i funghi o i frutti di bosco: quelli sono capaci tutti. Per le erbe. Quelle commestibili e quelle officinali. “Solo un istante che ho dimenticato il libro”, dice, “Perché di tante erbe conosco il nome tedesco e voglio dirvelo anche in italiano. O almeno in latino”. È bello che dopo le storie rapprese tra le pareti dei masi, sia il momento di quelle alle falde degli alberi, in mezzo a questa natura incredibile. Saliamo fino a 1.800 metri alla diga del Palù, dove ci accoglie un lago color giada. Guidati da Martina, assaggiamo fiori il cui nome non saprei ripetere, ed erbe, in un’aria rigenerante.

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Camminando all’ombra dei monti striati di neve, Martina racconta le vite degli alberi come fossero amici di vecchia data e confidenti; alcuni danno ombra, altri frutti, ma altri ancora bisognerebbe essere così umili da abbracciarli, rimanendo lì in silenzio per alcuni istanti, viso e pelle sulla corteccia, a fare nostra la loro misteriosa energia. Quando chiedo a Martina se porta tutti gli ospiti qui, lei scoppia a ridere: “Magari! Io lo propongo a tutti, ma alcuni preferiscono rimanere a rilassarsi giù, nella SPA”. Peccato, perché io è da tempo che non sono così rilassato, in corpo e spirito.

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I fiori e le erbe raccolte finiscono sul piano della cucina. Tiziano è in veste di chef, adesso, e provo come sempre un senso di riverenza. Prepariamo un piatto dal nome lungo lungo: gnocchi di ricotta, erbe e fiori di bosco farciti al Casolét, su letto di pere a carpaccio, dadolata di kiwi e una spruzzatina di noce moscata. Semplice, rapido e squisito, ma quando scrivo la nomea del piatto alla mia bimba a casa lei risponde di preferire i Teneroni.

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Fino a qualche ora prima non sapevo neanche che cosa fosse il Casolét, formaggio tradizionalmente prodotto in Val di Sole e presidio Slow Food. Me ne hanno parlato al Caseificio “Turnario” di Pejo, l’ultimo del Trentino ancora in funzione. Turnario perché ogni socio del caseificio, in proporzione alla quantità di latte consegnata, ha diritto a un certo numero di caserade, l’insieme dei prodotti lavorati in un giorno. E qui, conosciuto naturalmente da tutti, lavora Mattia, un ragazzone di 23 anni. Mentre taglia la cagliata candida che affiora nella caldaia, senza distogliere lo sguardo dal lavoro, racconta il perché e il percome di una scelta così antica alla sua età, in un mondo folle sempre in corsa. Ma come si dice, questa è un’altra storia.

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Come arrivare allo Chalet Alpenrose

Lo Chalet Alpenrose Bio Wellness Naturhotel si trova a Cogolo di Peio (Trento), nel cuore del Parco Nazionale dello Stelvio. Tel. +39 0463 754088; e-mail: info@chaletalpenrose.it. Col suo centro benessere, l’ottimo ristorante e l’ampio ventaglio di proposte – che comprendono escursioni, DEEAR-WATCHING (osservazione del cervi all’alba), FORAGING (raccolta erbe naturali), cene sotto le stelle e passeggiate con le lanterne nel bosco – l’Alpenrose di Tiziano, Martina e Stefanie è perfetto sia per chi cerca relax e buona cucina, sia per chi aspira a qualche giorno in mezzo alla natura, nel cuore delle Alpi più belle.

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Nella patria dell’aceto balsamico

Un viaggio nelle acetaie di Modena, dove il balsamico tradizionale invecchia per anni in botti sempre più piccole, per concentrare tutta l’anima dell’uva in una goccia d’oro nero

Nell’acetaia c’è un silenzio buono, come una volta nelle case dei vecchi in estate, durante il pomeriggio, quando era d’obbligo la pennichella. Qui non bisogna disturbare il sonno dell’aceto che matura, si densifica e prende corpo di anno in anno. Il profumo è acre, la penombra ricorda quella delle chiese. Le pareti sono piene di ricordi: foto di famiglia che diventano via via ingiallite, cimeli e arnesi da lavoro della civiltà contadina, ormai anneriti, e poi provette, aggeggi di vetro da laboratorio di chimica, che servono per le analisi sul prodotto.

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Allineate, le preziose batterie di botti. Si usano legni diversi: rovere, gelso, castagno o ciliegio. Ogni batteria è formata da una sequenza di botti sempre più piccole, ciascuna con una piccola apertura coperta da un panno per aiutare la lentissima evaporazione dell’aceto, che riduce nel tempo il proprio volume. Una volta all’anno viene fatto il delicato rabbocco: dalla penultima botte si toglie aceto e lo si colloca nell’ultima, la più piccola, finché non è piena; dalla terzultima si colloca nella penultima e così via, fino alla botte grande, quella che contiene l’aceto più giovane. Qui si mette un’adeguata quantità di mosto cotto e fermentato. Fine dell’opera. Il resto è tempo. Tanto tempo. E rimane una piacevole scoperta che a Modena, terra di motori con Ferrari e Maserati, si nascondano nicchie così slow, dove la pazienza è tutto e l’arte viene tramandata di padre in figlio, senza particolari innovazioni tecnologiche. Ciò che si faceva negli anni ’50 viene ripetuto tale e quale oggi.

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L’acetaia – è bene precisarlo – non ha nulla a che fare con la cantina. Innanzi tutto per la collocazione. Le troviamo infatti nei sottotetti delle case, lontani da elettrodomestici e persone,  dove il caldo torrido in estate si alterna al freddo umido dell’inverno, quando una densa nebbia si distende come un mare livido sulla Pianura Padana. Grazie a questo microclima, si alternano in maniera naturale periodi di fermentazione più rapida ad altri di stasi, che uniti all’evaporazione e all’aroma dei legni delle botti portano al prodotto finito.

Una celebre canzone di Francesco Guccini dice che Per fare un uomo ci vogliono vent’anni. Ebbene, per ottenere un aceto balsamico tradizionale stravecchio ne servono di più: almeno 25. Per questo l’acetaia, qui a Modena, è anche una galleria di ricordi famigliari. Quando nasce un bambino, ad esempio, c’è l’usanza di inaugurare una nuova batteria di botti. L’aceto maturerà insieme al bimbo che cresce, avrà la stessa età, e magari da adulto sarà proprio lui a occuparsi delle botti. Le batterie vengono tramandate di generazione in generazione o donate come dote quando ci si sposa. Neanche da dire, ogni maestro acetaio cova il sottile timore di non trovare eredi in famiglia, tra figli, generi e nipoti, che ne portino avanti l’arte.

Visitare un’acetaia non è difficile. Molte sono aperte al pubblico. Si può andare ad esempio all’Acetaia Al Parol (Via Maestra 825/A – Ravarino – Modena. Tel. +39 059 900236; Cell. +39 328 6030039. Info mail qui), che organizza degustazioni, eventi e visite guidate con la possibilità di acquistare i prodotti. Sul sito web dell’Acetaia anche tante ricette a base di aceto balsamico tradizionale. Se volete saperne di più, nel paese di Spilamberto, culla del prodotto e sede della Consorteria dell’Aceto Balsamico Tradizionale, oltre a un curioso monumento all’aceto balsamico (una gigantesca scultura a forma di goccia), troverete un bel Museo dedicato all’oro nero di Modena.