10 luoghi dell’Emilia Romagna che devi assolutamente conoscere

Una delle regioni più belle d’Italia in dieci mosse fuori dagli schemi

Come dice il nome, prima di tutto Emilia Romagna significa due mondi in uno. Da un lato le terre celebri per l’eccellenza della gastronomia e le aziende automobilistiche – non per niente parliamo di “Motor Valley” – dall’altro le città di mare, con lo splendore dell’arte paleocristiana a Ravenna e i borghi medievali nel Montefeltro. Al centro, la dotta Bologna, che poi è anche detta la grassa, la goliardica o addirittura “la città delle tre T”: tette, torri e tortellini. Un’anima scapigliata dove nessuno ha mai messo in discussione quel tanto di gola e di lussuria.

Oggi voglio presentarvi 10 luoghi di questa splendida regione che forse ignorate, giusto per darvi qualche motivo in più per venire a conoscerla.

Cipressi e grappoli d'uva, Campiglio. Ottobre 2016 Rid.
Autunno, Vignola – Modena

1) Le colline del Lambrusco

Siamo in provincia di Modena, in quell’unione di Comuni chiamata “Terre di Castelli”. Il paesaggio collinare è dolce e sofferto allo stesso tempo a causa del calanchi che, come cicatrici argentate, irrompono nel verde. Durante il periodo autunnale la zona tra Castelvetro e Savignano sul Panaro si veste dei colori caldi delle vigne, tra rocche medievali e torri. Una meraviglia.

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2) Il borgo dipinto di Dozza

Siamo nel Bolognese. Dozza è un piccolo tesoro d’arte a cielo aperto, uno dei borghi dipinti più belli d’Italia. Passeggiando tra i suoi vicoli acciottolati, si possono ammirare decine di murales e disegni sui muri delle case, risultato di una kermesse biennale di artisti nata negli ’60 e che si tiene tuttora. Un tripudio di fantasia. Non dimenticate di fare un salto nella Rocca Sforzesca, sede dell’Enoteca Regionale dell’Emilia Romagna.

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3) Bobbio

Varrebbe la pena di venire a Bobbio, nel Piacentino, anche solo per vedere il suo ponte vecchio – o ponte Gobbo – sul fiume Trebbia: un’opera che fin dal Medioevo destava l’ammirazione dei tanti pellegrini che si trovavano a passare di qui. Bobbio sorgeva infatti sulla Via degli Abati, o Via Francigena di montagna, un cammino che già in epoca longobarda la collegava con Pavia e Pontremoli.

San Pellegrino in Alpe di Devis Bellucci Rid
Santuario di San Pellegrino e San Bianco – Modena/Lucca

4) San Pellegrino in Alpe

Ci troviamo a oltre 1500 metri di quota e infatti il borgo di San Pellegrino è tra quelli più alti dell’Appennino. Pensate che la zona è divisa in due dalle provincie di Modena e Lucca: il confine taglia proprio il paese, così per metà si trova in Toscana e per metà in Emilia. Il santuario è da sempre frequentato dai pellegrini, che si recano qui per chiedere grazie a San Pellegrino e San Bianco e toccare la croce di faggio, che guarda come una sentinella le Alpi Apuane.

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Torrechiara – Parma

5) Il Castello di Torrechiara

Si trova in posizione panoramica sui primi rilievi dell’Appennino parmense ed è uno dei castelli più scenografici e meglio conservati d’Italia.  All’interno le sue sale presentano splendide decorazioni rinascimentali. L’ambiente più celebre della rocca è la Camera d’Oro, affrescata da Benedetto Bembo nel 1462 con un ciclo di dipinti che sono un inno all’amor cortese. A proposito di amore, pensate che questo castello fu voluto dal conte Pier Maria de’ Rossi come nido d’amore per sé e l’amante Bianca Pellegrini. Quando si dice perdere la testa per una donna…

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6) Il parco del Delta del Po

Gli appassionati di natura e birdwatching devono assolutamente trascorrere un weekend nella Camargue d’Italia, dove il Po si divide in mille rivoli e canali per raggiungere l’Adriatico. Un buon punto di partenza per visitare il parco è la località di Goro, nel Ferrarese, da dove è possibile raggiungere uno degli ultimi ponti di barche rimasti in zona. Oltre ai tanti sentieri, percorribili a piedi o in mountain bike, non perdetevi una gita in barca e la visita dell’Abbazia di Pomposa, risalente al IX secolo, una delle più importanti del nord d’Italia.

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7) La pista ciclabile che collega Ravenna e Cervia

Eccoci nel cuore della Romagna. Fra i segreti più custoditi della zona c’è il percorso ciclabile (perfetto da fare anche a piedi) che collega l’antica capitale dell’Impero Romano d’Occidente con la località di Cervia. Il tragitto tocca il borgo di Classe, dove si trovava il porto romano, e attraversa la pineta omonima, citata anche da Dante Alighieri nella Divina Commedia. Lo scenario è di una bellezza commovente, con campi di girasole, canali e capanne su palafitte per la pesca. Sembra di essere lontani migliaia di km dal caos della riviera.

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Monteveglio – Bologna

8) L’Abbazia di Monteveglio

Altro tesoro poco noto è questa abbazia nel Bolognese, in Valsamoggia, che domina da un colle la pianura Padana. Dedicata a Santa Maria Assunta ed eretta in stile romanico, fu edificata per volontà di Matilde di Canossa in segno di ringraziamento per la vittoria avuta sull’imperatore Enrico IV. Tutta l’area è inclusa in un parco regionale coperto di boschi, vigneti e prati. Anche qui il paesaggio è segnato dalla presenza dei calanchi.

Rossana - Panorama - Reggio Emilia 2018 - Studio 4 - DSC 8108
Castello di Rossena – Reggio Emilia

9) Il castello di Rossena

Ci troviamo nel comune di Canossa, sull’appennino Reggiano, in una zona ricca di vestigia medievali. La rocca risale probabilmente al 950 ed è stata edificata attorno a una torre più antica, simile a quella vicina di Rossenella. Non lontano si trova anche il castello di Canossa, i cui ruderi, purtroppo, non rendono affatto  l’idea di come doveva essere ai tempi della contessa Matilde. Oggi la rocca di Rossena è visitabile grazie ai volontari di un’associazione del posto, una miniera di informazioni e storie sul luogo (c’è pure la leggenda di un fantasma, ovviamente).

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Spiagga della Bassona – Ravenna

10) La selvaggia spiaggia della Bassona

A tutti quelli che non amano la riviera romagnola, giudicandola cementificata e senz’anima, io dico: Venite alla spiaggia della Bassona, rimasta praticamente come Dio l’ha fatta. Un po’ lo dobbiamo anche agli amici naturisti che in passato l’hanno frequentata con una certa assiduità, allontanando le fauci dell’edilizia. Chi vorrebbe mai una villetta con vista sui nudi fricchettoni? O un albergo, che poi i bambini si scandalizzano? Oggi la Bassona è un ampio tratto di litorale incontaminato che ci parla – con un po’ di tristezza, questo sì – di com’era la costa 50 o 60 anni fa. La trovate vicino a Lido di Dante, in frazione Fosso Ghiaia, una trentina di km da Ravenna. Ci si può arrivare ovviamente, anche da Sud, partendo in questo caso da Lido di Classe.

Le Raccolte Scientifiche del Collegio Alberoni di Piacenza, un tesoro sconosciuto

Era il 1732 quando papa Clemente XII Corsini emise la bolla di fondazione dell’Apostolico Collegio di San Lazzaro di Piacenza per l’educazione del clero. Quello stesso anno il cardinale Giulio Alberoni posò la prima pietra dell’edificio, che tuttavia vedrà l’ingresso dei primi seminaristi solo nel 1751. Le Raccolte Scientifiche del Collegio Alberoni nacquero proprio per conservare e valorizzare la vasta collezione di reperti naturalistici e scientifici del cardinale Giulio Alberoni (1664 – 1752). Il già ricco patrimonio si arricchì con successive donazioni anche a opera di docenti del Collegio stesso, che affiancò all’eccellenza nel campo degli studi scientifici una spiccata apertura ai contributi delle scienze moderne.

Il percorso espositivo si sviluppa in quattro sezioni e comprende un Museo di Storia Naturale, che affianca a un compendio del regno animale – con pesci, rettili, uccelli e mammiferi – una Collezione di Fossili e Minerali, la cui punta di diamante è la raccolta di reperti dell’Era Pliocenica, forte di oltre 2500 esemplari. Ci sono poi tre Osservatori (Meteorologico, Astronomico e Sismico), entrati in funzione tra l’800 e il ‘900, con attività di previsione meteorologica e climatologia, nonché sofisticate apparecchiature per fornire un quadro della sismicità locale, nazionale e internazionale. Infine, il Gabinetto di Fisica, dove ammirare una serie di sofisticati strumenti scientifici che raccontano la storia dell’elettricità. Tra i reperti esposti, una Pila di Volta coeva all’invenzione dello scienziato lombardo e un repertorio di macchine elettrostatiche. Per chi non lo sapesse, si tratta di dispositivi meccanici capaci di produrre tensioni molto elevate con correnti di intensità assai bassa: alcuni di questi strumenti erano in grado di produrre tensioni di centinaia di migliaia di volt, che si scaricavano generando scintille lunghe oltre mezzo metro (tra lo stupore degli astanti, letteralmente coi capelli dritti). Furono tra gli strumenti più importanti nei gabinetti scientifici dell’700 e dell’800.

Già che siete lì

Visitate anche l’attigua Galleria Alberoni, che custodisce la collezione di opere d’arte del cardinale Alberoni, uomo di cultura vasta e raffinata, insieme a una raccolta di arazzi, paramenti sacri, sculture e crocifissi. Le collezioni sono esposte in due luoghi del Collegio: l’Appartamento del cardinale, con i capolavori più preziosi e considerati più intimi, e la Galleria, allestita in un edificio degli anni ’60 ristrutturato di recente. Pezzo da novanta è l’Ecce Homo di Antonello da Messina, datato e firmato “1473 Antonellus messaneus me pinxit”. Abbondano i dipinti secenteschi e settecenteschi delle maggiori scuole pittoriche italiane.

DOVE, COME, QUANDO

Collegio Alberoni, Via Emilia Parmense 77, Piacenza
Tel: 0523 57701
mail: info@collegioalberoni.it
Web: http://www.collegioalberoni.it/scienze.php

Foto: commons.cathopedia.org

Il Museo del Cielo e della Terra

Un museo diffuso nel territorio di San Giovanni in Persiceto, Bologna, per andare alla scoperta dei misteri della natura e del cosmo

Il Museo del Cielo e della Terra di San Giovanni in Persiceto – provincia di Bologna – è una meta accattivante per accendere la curiosità dei piccoli esploratori (ma anche dei loro genitori, perché no) desiderosi di fare quattro passi nel variegato mondo delle scienze naturali. Si tratta di un campo d’indagine per definizione pluridisciplinare, attualmente piuttosto bistrattato a vantaggio di una tendenza, se non direttamente una corsa sfrenata, verso la specializzazione a tutti i costi, col rischio di smarrire per strada il prezioso colpo d’occhio sull’insieme.

Visitando questo originale Museo diffuso nel territorio persicetano, articolato in diversi poli didattici, ci si rende conto di come il naturalista debba saper guardare sia in alto, verso l’infinitamente lontano nel tempo e nello spazio, sia in basso, per studiare il micro-mondo armato di lente e microscopio, sia al di là dei fenomeni, con lo scopo di coglierne le leggi fondamentali che com’è noto sono scritte nel linguaggio della matematica. In fondo, per complicata che ci appaia la natura, tutto ciò che avviene è frutto di quattro forze: gravitazionale, elettromagnetica, nucleare ed elettrodebole.

Alla comprensione di quest’ultimo punto, forse il più ostico, è proprio dedicata una delle cinque sezioni del Museo del Cielo e della Terra: l’intrigante laboratorio di storia e didattica della fisica “Tecnoscienza-Fisiclab”, realizzato in collaborazione col Museo di Fisica dell’Università di Bologna. Qui, come realmente accade in ogni esperimento che si rispetti, guardare e non toccare è una cosa da dimenticare. I materiali e i giochi a disposizione, così come le macchine e gli strumenti in mostra vanno invece toccati e messi all’opera, sotto la guida di un docente che pone domande, propone esperimenti e ne discute coi ragazzi le possibili interpretazioni, secondo quella logica del “provando e riprovando” galileiano che condusse alle ben note scoperte.

Le altre sezioni del Museo comprendono l’orto botanico “Ulisse Aldrovandi”, con una vasta collezione di piante, alberi e arbusti della Pianura Padana insieme a specifiche ricostruzioni di ambienti (il bosco, la siepe, la zona umida, etc.); l’Area di Riequilibrio Ecologico “La Bora”, che abbraccia il bacino allagato di un’ex cava di argilla per osservare vegetazione e alberi autoctoni, piante acquatiche, rettili (come la testuggine palustre) e anfibi (rospi, tritoni, etc.), e il Laboratorio dell’Insetto, un vero museo vivente dedicato all’entomologia. Infine, la sezione astronomica, fiore all’occhiello del polo museale, che comprende un osservatorio astronomico, il planetario, la stazione meteorologica e la collezione di meteoriti più importante d’Italia.

Dove, come, quando: durante tutto l’anno, il Museo propone numerosi laboratori e incontri rivolti a bambini e adulti, corsi di approfondimento per studenti e ragazzi e di aggiornamento per docenti. Ogni Sezione ha i propri prezzi e orari di apertura. Tel. 051.827067 e-mail: info@museocieloeterra.org web: http://www.museocieloeterra.org. Le aree naturali e l’orto botanico sono sempre aperte e a ingresso libero.

Foto di copertina: Deep Space Climate Observatory

 

Il borgo dipinto di Dozza (Bologna)

Grazie alla Biennale del Muro Dipinto, questa deliziosa località nel Bolognese è diventata una galleria d’arte a cielo aperto

La prima notizia documentata del nome di questo borgo medievale, dalla forma che ricorda la carena di una barca, è del 1126. Dozza deriverebbe da “doccia”, riferito alla presenza nel luogo di un condotto per convogliare l’acqua in una cisterna per la popolazione. Oggi Dozza si mostra intatta nella sua veste medievale, con la massiccia Rocca Sforzesca, le stradine selciate, il Rivellino di accesso all’abitato e la chiesa di Santa Maria Assunta. Attorno, l’abbraccio delle prime colline che cingono la via Emilia, fra Bologna e Imola, coperte di vigneti.

Tutta questa zona, una sorta di baricentro tra Emilia e Romagna, ha un’antica e illustre tradizione vitivinicola. Dozza è infatti anche detta Città del Vino, nonché sede dell’Enoteca Regionale dell’Emilia Romagna, che coinvolge oltre 200 produttori di vino, aceto balsamico e distillati. La visita all’Enoteca per assaggiare un buon calice di Albana, Lambrusco, Sangiovese o Malvasia vale il viaggio. Proprio l’Albana è stato il primo, tra i bianchi italiani, ad avere ottenuto la Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG) nel 1987.

Il borgo di Dozza è reso unico dai numerosi dipinti sui muri delle case, che illuminano nel segno della bellezza il paesaggio urbano e regalano suggestioni improvvise. Una vera galleria d’arte contemporanea a cielo aperto, senza orari d’apertura né biglietto d’ingresso, dove ci perde lungo le ali della fantasia. I dipinti sono il lascito della Biennale del Muro Dipinto, una manifestazione nata negli anni sessanta che vede protagonisti artisti di tutto il mondo, le cui opere rimangono poi a patrimonio del borgo. Il risultato è un medioevo colorato proprio come nelle fiabe, dove creature malinconiche ti fissano da un’architrave e le nubi corrono lungo le pareti delle case, lontane, verso l’orizzonte fioco della grande pianura Padana.

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Cosa mangiare e dove mangiarlo

Qui sono ottimi tutti i salumi. Anche se siamo in Romagna da pochi km, troverete chi ve li serve con una piada romagnola preparata come Dio comanda. Da assaggiare i primi piatti con la sfoglia tirata a mano: tagliatelle al ragù di carne alla bolognese (un’istituzione), maccheroni al pettine e tortelli con ricotta e spinaci conditi con burro fuso aromatizzato alla salvia, non senza un’abbondante spolverata di Parmigiano Reggiano. Per assaggiare la cucina tipica del territorio potete andare, ad esempio, alla Piccola Osteria del Borgo o al ristorante La Scuderia.

Le Terre di Canossa: un tuffo nel medioevo tra le splendide colline reggiane

Castelli, torri d’avvistamento, suggestivi ruderi e tutta la bellezza della primavera nelle terre che furono della Grancontessa Matilde

Si dice ancora “Andare a Canossa”, in riferimento a qualcuno che è costretto a umiliarsi, a fare atto di sottomissione. L’espressione deriva da un fatto storico avvenuto proprio a Canossa, sull’Appennino reggiano, nell’inverno del 1077, quando l’imperatore Enrico IV dovette pazientemente aspettare per tre giorni fuori dall’uscio del castello, prima di essere accolto e perdonato da papa Gregorio VII, grazie alla benevola – e interessata – intercessione della Grancontessa Matilde di Canossa. Quando ho raccontato il fatto alla mia bimba di sei anni, proprio mentre andavamo a Canossa (non a umiliarci, ma a visitarla), ha commentato: «Cavolo, papà, ma allora facevano le cose proprio sul serio: aspettare così tanto senza mangiare, bere, parlare, dormire, fare la pipì… Chissà che cosa gli avevano promesso». E pensate che il detto si usa anche in altre lingue: dall’inglese (go to Canossa) al tedesco all’ebraico.

Arrivare a Canossa è facile da tutta Italia, visto che c’è una comoda uscita sull’autostrada A1 (Terre di Canossa – Campegine). Da qui la strada attraversa un piacevole scenario collinare che si fa un po’ più impervio avvicinandosi alla destinazione. In alcuni tratti la vegetazione si dirada, come fossimo in alta montagna, anche se ciò è dovuto solo alla natura del terreno argilloso. Siamo in zona di calanchi, quelle cicatrici argentate che si aprono lungo i primi rilievi emiliani, a testimoniare la presenza di un antico mare. Non è raro trovare conchiglie fossili. Proprio in primavera il paesaggio calanchico è particolarmente suggestivo, perché la natura sterile della terra, che ha un aspetto sabbioso e lunare, contrasta con la forza della primavera. Ogni angolo è un tripudio di fiori – colza, ginestre e margherite – abbarbicati lungo le colate di argilla color cenere. Quando eravamo piccoli, questo mondo sofferto e franoso era per noi teatro di avventure. Non mancava nulla: il fango, le discese ardite (e le risalite…), i fossili, il senso di trovarsi lontano da casa.

Mentre il Castello che fu della Grancontessa Matilde è assai malridotto (sic transit gloria mundi…), rimane sostanzialmente intatto quello, vicinissimo, di Rossena, che consiglio caldamente di visitare soprattutto se avete bambini al seguito. Il castello sorge su una rupe vulcanica dal colore rossiccio, proprio di fronte a una torre di avvistamento, la quadrangolare Torre di Rossenella. L’austera Rocca si sviluppa su tre livelli, con una cisterna ora vuota, il refettorio, la sala d’Armi e la classica umida prigione da cui la fuga era un’utopia. Dai camminamenti si gode un bellissimo panorama sul sottostante borgo di Rossena, sulle rovine del castello di Canossa e poi via via fino alle cime più alte dell’Appennino reggiano, attualmente ancora innevate.

Al castello si può accedere solo con visita guidata. Chi come me preferisce la libertà, subito potrebbe storcere il naso, ma vi assicurò che dovrà ricredersi. La visita è infatti curata dai bravissimi volontari di un’associazione locale: tutta gente del posto innamorata del “proprio” castello, che vi delizierà con aneddoti e storie, anche di fantasmi, perfette per incorniciare con un’aria fiabesca questa finestra aperta sul medioevo.

Info per la visita qui.

La fortezza di Torrechiara, uno dei castelli più scenografici d’Italia

Location cinematografica d’eccellenza, scrigno di opere d’arte e leggende, perfetta per un weekend sulle colline parmensi

A neanche 20 km da Parma, sulle colline di Langhirano, la fortezza di Torrechiara sorge altiera et felice in posizione dominante sul fiume, a due passi dalle montagne. Venne costruita sulle rovine di un più antico fortilizio, tra il 1448 e il 1460, dal Magnifico Pier Maria Rossi, condottiere e conte di San Secondo. È considerato uno degli esempi più importanti e meglio conservati dell’architettura castellare in Italia, nonché monumento nazionale.

Il castello regala un colpo d’occhio molto scenografico in ogni stagione dell’anno, ma a noi piace soprattutto d’estate, quando i papaveri fioccano qua e là tra i campi e la mole severa del maniero si staglia nel cielo azzurro, e durante i mesi più freddi. Allora le nebbie scendono a inghiottire la valle, il silenzio ha un’aria spettrale e Torrechiara pare tornare indietro nel tempo, verso un medioevo fatto di scorribande, streghe e lupi ululanti (in realtà i lupi ululano in abbondanza anche oggi sull’Appennino Tosco-Emiliano, ma di questo vi racconto un’altra volta).

Nel cuore del castello, tra sale riccamente affrescate, spicca la splendida Camera d’Oro, opera del pittore Benedetto Bembo, che celebra l’amore tra Pier Maria e l’amante Bianca Pellegrini di Arluno, detta Blanchina. Pare che il conte abbia fatto edificare la fortezza non solo per tenere sotto controllo la valle, ma anche per avere una dimora elegante (e appartata) in cui incontrare l’adorata amante. Insomma, unì l’utile al dilettevole.

Pier Maria e Bianca sono sepolti nell’oratorio palatino di San Nicodemo del castello. Leggenda vuole che il fantasma di lui si aggiri nel maniero durante le notti di plenilunio, cercando disperatamente la sua amata e ripetendo il motto “Nunc et semper”. Altri parlano dello spettro di una duchessa murata viva nel castello, ma le testimonianze sono discordanti.

La fortezza di Torrechiara è apparsa in diverse serie televisive, videoclip musicali e anche in una puntata di “Ulisse, il piacere della scoperta” dedicata ai Castelli nel Tempo. Gli appassionati di cinema la riconosceranno nel film Ladyhawke (1985), diretto da Richard Donner e interpretato, tra gli altri, da Michelle Pfeiffer.

Già che siete venuti fino a qui, riflettete sul fatto di trovarvi a Langhirano, patria del culatello. Non andatevene senza un buon pranzo in un’osteria!

Dove, come, quando: Via Castello 1, 43010 Torrechiara, Langhirano (Parma). Tel. 0521 355255 e-mail: iat@comune.langhirano.pr.it web: http://www.portaletorrechiara.it. Aperto da novembre a febbraio: mar-ven 9.00-16.30; sabato, domenica e festivi 10.00-17.00; da marzo a ottobre: martedì, domenica e festivi 10.30-19.30; gli altri giorni 8.30-19.30. Chiuso il lunedì. Ingresso: dai 18 ai 24 anni, 2 Euro; dai 25 anni, 4 Euro.

Immagine di copertina: Massimo Telò  – CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0) – per Wikipedia Commons

Grazzano Visconti, Piacenza: un fiabesco villaggio neo-medievale

Si vi emozionano le rievocazioni storiche, venite a visitare Grazzano Visconti, nel comune di Vigolzone, in provincia di Piacenza. L’illusione medioevale che questo scenografico borgo riesce a regalare vale il viaggio: muri merlati, finestre a sesto acuto, fontane, colonnine, statue, persino una chiesetta… Tutto come se fossimo nell’anno mille. Come se, tuttavia, perché nonostante la località paia uscita da La spada nella roccia, gli edifici hanno a malapena un secolo di vita.

È stato infatti all’inizio del ‘900 che il duca Giuseppe Visconti di Modrone, “uomo coltissimo di gusti raffinati e di idee ben chiare”, decise di restaurare le cadenti case coloniche attorno alle rovine del castello di Grazzano, risalente alla fine del 1300, costruendo ex novo un villaggio neo-medioevale. Oggi il borgo, insieme al castello e al parco che lo circonda, è visitato da più di 300.000 persone all’anno, desiderose di fare quattro passi in un mondo fiabesco.

Come ogni luogo incantato che si rispetti, Grazzano avrebbe anche il suo buon fantasma. Si tratterebbe di Aloisa, data in sposa a un capitano di milizia con poco senso dell’onore e morta di crepacuore quando lui la tradì. Da allora il suo spirito inconsolabile vaga tra le mura del castello. Pare che si sia manifestata allo stesso Giuseppe Visconti che ne tracciò un ritratto, grazie al quale sono state realizzate alcune statue poi collocate nel borgo. Per la gente del posto l’inconsolabile Aloisa è diventata la protettrice degli innamorati.

Dove, come, quando

Località: Comune di Vigolzone, a 12 km da Piacenza. La visita al borgo è libera.
Informazioni e prenotazioni visite guidate nel Parco:
Viale del Castello, 2 – 29020 Grazzano Visconti (PC)
Tel. + 39 0523 870136 Cell + 39 366 4543511

Immagine di copertina: GFDL via wikipedia.com

Un piccolo segreto romantico nel delta del Po: il ponte di barche di Gorino (rifugio di noi romantici)

Quello che mi colpì del ponte di chiatte fu il rumore che faceva. Immagino capiti anche a voi che a scrivere le nostalgie non siano tanto le immagini – anche se il grosso dei nostri ricordi procede per colori, luci e ombre – ma i suoni, o i profumi. Ad esempio, quando stavo a San Paolo del Brasile, nella mia adorata periferia fatta di case basse in perenne costruzione, tanfo pungente di smog che si mescola con la pioggia e aquiloni neri che tremano nel cielo, ogni qualche mattina passava il furgoncino del gas, lentamente, a ritirare le bombola vuota in cambio di una piena (e di soldi). Si annunciava con un suono di flauto: una musica dolce, onirica, che scivolava lungo la strada e che forse non risentirò mai più.

Anche il ponte di chiatte di Gorino, nel ferrarese, parla di una voce unica. È quella del legno che si sforza, i tiranti che oscillano nell’aria, l’acqua del fiume che sbatte, lentamente, sulle pance grigie delle barche. In estate è un coro folle di cicale e zanzare, che ti sembra quasi di sentire in giro il fumo di uno zampirone, ma forse è solo un déjà-vu per via della nostra infanzia in Riviera. D’inverno, invece, gli insetti tacciono, congelati nella nebbia densa come ambra.

Il bello è che il ponte non fa la propria funzione da solo. Quando si profila lontano un motoscafo, infatti, entra in gioco lui. Il guardiano. Quello che ho conosciuto io, anni fa, era un vecchio pescatore in pensione con una grossa cicatrice sul petto. Per colpa di un infarto, disse. E intanto saliva in capo alla macchina che serve per aprire il ponte. Lo guardai curioso. Ricordava un po’ Il castello errante di Howl di Miyazaki, e un po’ le gru intente a ripescare la nave affondata di Indastria in Conan, il ragazzo del futuro (sempre con la mano di Miyazaki, ma più defilato perché ai tempi era solo un ragazzetto. Genio, ma ragazzetto).

Perché per fare passare le barche, il ponte si deve scansare. C’è un grosso motore diesel con pistoni e sbuffi che lo apre in due. Il natante passa, le chiatte vengono di nuovo serrate. Quante volte? Mille al giorno: dipende dal traffico. Tipo Caronte, ma un po’ più romagnolo. E mentre le chiatte si fanno da parte, il rumore è quasi strepitoso. Poi, di nuovo, il silenzio del vento che sferza le canne. C’è anche un’edicola con la statua della Madonna dove non mancano i fiori. Sono la cosa più colorata di qui.

È bello sapere che certe cose si ostinano a esistere ancora. Letterarie, buone, dove serve un occhio custode e la mano di qualcuno. Guardare passare gli altri, in una terra di confine. Non sono questo le foci di un fiume? Terra e acqua che si abbracciano in un mondo meticcio e poroso, dove la vita si rigenera con voluttà, quasi con ferocia, perché il nutrimento non manca mai. Ci abitano in pochi nella minuscola Camargue d’Italia, tra le provincie di Ferrara e Rovigo. L’Adriatico non ha mai avuto la forza di appropriarsi del fiume, facendone un estuario come succede per gli oceani; allora, il nostro Po si dirama come una capigliatura stanca, in braccia, dita e pozze. Pensate: c’è il Po di Venezia, quello di Levante, l’isola dell’amore (escursione in motonave, pranzo a bordo tutto compreso: risotto alla pescatora, frittura, spiedini, pignoletto) e perfino il Po di Gnocca, ma non ci sono mai stato, poi il faro, le dune e decine di sentieri per perdersi di sicuro nell’isolotto che non c’è. Qui, dove nascono terre e altre vengono sciolte dal mare.

So che un giorno il ponte di barche di Gorino, frazione di Goro, non esisterà più. Nel tempo ho letto sul web cattive notizie, ma di recente non mi sono documentato. Preferisco fare finta di essere all’estero per un lungo viaggio, per poi ritornarci un giorno sperando di rimanere incantato come successe anni fa, quando l’ho visto per la prima volta che la mia bimba era ancora nella pancia della sua mamma, e ci scrissi su addirittura un romanzo. Spero al massimo di vederlo in rovina, chiuso, dato in pasto al mare. Staremo a guardare dal bordo le sue chiatte che si liberano dalle funi e prendono il largo una dopo l’altra, dolcemente, ritornando barche. Perché noi uomini abbiamo bisogno di sapere che l’infanzia, coi suoi sogni, da qualche parte continua a navigare.

Se volete andarci anche voi

Il ponte di barche dell’articolo si trova tra Gorino Ferrarese e Gorino Veneto, nel Parco Naturale del Delta del Po. Quando siete nelle vicinanze, ci sono le indicazioni.

Nicola la vide che era ferma sul bordo del fiume, con la borsa in mano.
La riconobbe come l’unica donna possibile.
L’aver provato ad amare aveva ora una sua destinazione.
L’avere camminato tanto cambiando tutte quelle scarpe.
L’aver tirato le funi da un lato all’altro, le funi e le chiatte.
L’aver abbattuto alberi e aspettato che i semi ne portassero di nuovi.
Era in quel luogo, adesso, che terminavano le destinazioni.
Era in quel luogo che iniziava il fiume.
Nicola lasciò da parte tutte le parole che si era messo in tasca. Andò verso Teresa superando il ponte. L’acqua brillava sotto le traversine […]

Dal romanzo “La ruggine” di Devis Bellucci (A&B Editrice)

 

©DEVISBELLUCCI Se copiate senza autorizzazione mi arrabbio moltissimo!

La splendida spiaggia della Bassona, in Romagna: selvaggia e nuda come Dio l’ha fatta

Lo so: la mia Emilia Romagna non ha fama di belle spiagge. Ottima cucina, divertimento, lidi attrezzati per famiglie, bambini, amanti in fuga, coppiette, etc… Ma se vuoi il mare come Dio comanda, con l’acqua limpida, la sabbia dorata, uno sprazzo di silenzio per ascoltare il rumore della risacca, te ne devi andare minimo in Liguria (ma non in agosto) oppure in Toscana (sempre non in agosto). In bassa stagione, invece, la partita va anche peggio, dato che la costa romagnola, ripulita dai suoi orpelli, tolti ombrelloni e tavolini, a tanti ricorda il fascino decaduto di Pripyat, la città fantasma ucraina abbandonata dopo il disastro di Chernobyl.

Per quanto mi riguarda, io adoro la mia riviera proprio solo d’inverno, quando non c’è nessuno. Passeggio accanto al mare tra gente col cane – qualcuno che corre, qualcuno per mano con la tipa – e mi stupisco ogni volta di quanto sia grande, dolente e luminosa la spiaggia che sale da Cattolica fino alle foci del Po. Procedendo verso nord ingrigisce un pochino, l’ammetto, ma si popola anche di gabbiani, che graffiano il cielo con le loro grida e scendono tra noi, incuranti del nostro passaggio, a banchettare tra le alghe. Mi piace camminare schiacciando il riso – così chiamavamo da bambini le minuscole conchiglie che riempiono il bagnasciuga – ripensare alle nostre nonne nei loro rigorosi costumi interi, che hanno portato tutti noi qui, negli anni ’70 e ’80, quando prendere la motonave per andare da Cesenatico a Rimini, al largo e lungo la costa, era già un viaggio di un certo interesse.

Ebbene, a tutti quelli che schifano la malinconica bellezza della riviera romagnola, giudicandola cementificata, sporchiccia e priva d’anima, io dico: Venite alla spiaggia della Bassona. Forse è rimasta come ai tempi di Dante Alighieri. Un po’ lo dobbiamo anche agli amici naturisti che in passato l’hanno frequentata con una certa assiduità, allontanando le fauci dell’edilizia. Chi vorrebbe mai una villetta con vista sui nudi fricchettoni? O un albergo, che poi i bambini si scandalizzano? Grazie anche ai naturisti, oggi la Bassona è un ampio tratto di litorale selvaggio che ci parla – con un po’ di tristezza, questo sì – di com’era la costa 50 o 60 anni fa.

La trovate vicino a Lido di Dante, in frazione Fosso Ghiaia, una trentina di km da Ravenna. Ci si può arrivare, ovviamente, anche da Sud, partendo in questo caso da Lido di Classe. Siamo all’interno della Riserva Naturale della Foce del Bevano. La spiaggia, fortunatamente, non è segnalata e soprattutto la si raggiunge a piedi con una passeggiata lunga lunga sul bagnasciuga, ammirando lo scenario che via via diventa selvaggio. Come si denudasse anche lui, per la gioia dei nostri occhi. A un tratto c’è una rete con un cartello: da lì in poi il contesto è protetto, quindi siete avvisati. Niente servizi, bar e lettini.

La spiaggia è color miele, impreziosita da conchiglie, pietruzze, tronchi dilavati dalla marea, rottami che hanno attraversato l’Adriatico. Storie, insomma, da ascoltare e immaginare. Attorno, un cordone di dune vive, che il vento plasma di anno in anno, e una vasta pineta che profuma l’aria. In primavera la terra si riempie di fiori.

Pensavo proprio quest’estate alla Bassona, visitando le piatte coste del Baltico tra Germania e Danimarca, dove ho incontrato parecchi naturisti con le carni color della sabbia, minuscoli fiori viola e un mare color metallo, in una pace che scalda il cuore. Se è così che va la vita, il nostro frammento di Baltico l’abbiamo in Romagna, noi. Con in più la pineta di Classe, la carezza per gli occhi e lo spirito che regalano i mosaici di Ravenna, il sorriso che sa ancora oggi strappare l’accento strascicato degli amici di qui. E quando vogliamo tornare alla civiltà, un piada calda dal’Ester o dalla Dolores: con cinque Euro la pancia è piena e il palato ringrazia.

©DEVISBELLUCCI: se copiate senza autorizzazione divento molto cattivo.

La Strada della Poesia, nel cuore della Romagna

Alle porte di Faenza le colline disegnano uno dei paesaggi più bucolici d’Emilia Romagna. Filari di viti, prati che in primavera sono un trionfo di fiori, torri medievali e ulivi, da cui si ricava l’eccellente Olio Extravergine di oliva di Brisighella. I fianchi dei pendii sono spaccati da calanchi, quelle cicatrici pastose ricche di fossili, che raccontano di un mare lontano. Nel tempo, più che nello spazio, visto che l’Adriatico è dietro l’angolo e ogni tanto il suo fiato sapido arriva fino a qui.

Prendendo qualcuna di queste strade, verso i colli di Oriolo dei Fichi, San Mamante e Castel Raniero, potreste notare a un certo punto dei cartelli appesi agli alberi, rossi con le scritte gialle. Rivestono i sentieri e i fianchi delle carreggiate in maniera discreta. Accostate l’auto e scendete: siete arrivati. Se invece dell’auto avete una bici, tanto meglio: è tutto più facile.

Quei cartelli sono pieni di poesie. Parlano di allodole, lucertole, usignoli e lucciole; di colori che si alternano con l’andare delle stagioni, di istanti di vita contadina e inviti all’amore. È un affresco tenero e stupito del mondo di qui, filtrato da un senso di religiosa appartenenza.

Quella che ormai è nota, in zona, come Strada della Poesia, è opera di un uomo del posto, per tutti semplicemente Nino da Oriolo. Dopo una vita da agricoltore unita all’insegnamento negli Istituti Agrari, con una parentesi di lavoro in un kibbutz in Israele, il signor Nino ha iniziato a scrivere poesie. Prima su quaderni poi, dal 2008, su cartelli che appendeva agli alberi. Gli Amministratori li facevano togliere e lui li riattaccava, garbatamente. In un secondo momento hanno cominciato a sostenerlo, trasformando la sua opera in una meta turistica.

Quando ho conosciuto il signor Nino aveva già 82 anni. Mi accolse con gentilezza, raccontandomi la sua vita e il legame forte con le colline che si perdevano davanti a noi, nella nebbiolina dell’orizzonte. Chiamava quel luogo Oasi del Silenzio. Lì raccoglieva le immagini che diventavano poesie. Quel giorno mi disse più volte di essere preoccupato per le rondini: in passato il loro rincorrersi riempiva il cielo, ma oggi se ne contano poche ed è tutta colpa nostra. Ossia, dell’inquinamento.

Poco lontano c’è anche un vecchio sentiero militare, che durante l’ultima guerra era un viavai di soldati. Adesso è un tripudio di poesie d’amore, grazie all’intuizione e al lavoro di Nino da Oriolo. Lo chiamano appunto Il sentiero dell’amore. I giovani passano e leggono, cogliendo l’invito a fermarsi che arriva da questo signore mite e dolce; sono parole simili a quelle dei lirici greci, più di duemila anni fa. Qualcuno fotografa quei versi, altri sorridono pensierosi, mentre attorno pulsa il silenzio della campagna. La pace e la fiducia nell’uomo si costruiscono anche così.

Nel rosso calar della sera,
i grilli battono la serenata alla luna.
In fila gli olmi si stagliano in cima al colle,
salutano la mia giornata di lavoro.
Li sento vicini,
vivono nella mia terra,
vivono nel mio sole,
sentono il mio vento,
godiamo del piacere di vivere.
In silenzio mi accompagnano nel mio andare.
Non sono solo,non siamo soli.

Nino da Oriolo

Se vuoi andarci anche tu

La Strada della Poesia si trova sulle colline attorno a Brisighella (Ravenna). Trovate qui alcune informazioni sulla zona. E per dormire in un posto splendido, andate da Barbara e Roberto all’Agriturismo Ca’ de’ Gatti. Dite che vi manda Devis, lo scrittore che ha presentato lì il suo romanzo L’inverno dell’alveare!