Il lago dell’arcobaleno che non esiste più…

Era uno dei luoghi più incantevoli delle Dolomiti. Serviranno decenni perché ritrovi l’antica bellezza

Ecco un’altra meraviglia della nostra Italia, nel cuore delle Alpi, incastonata fra le Dolomiti. Ti prepari al bello, perché le immagini del lago di Carezza, in Alto Adige, le hai già viste mille volte online, sui libri e perfino come sfondi dei desktop; eppure, salendo lungo la strada tutte curve che ti porta in questo angolo di magia fra gli abeti, a oltre 1500 metri di quota, la domanda è sempre una: l’acqua avrà davvero quelle sfumature che paiono irreali, che sembrano photoshoppate, tanto che in lingua ladina questo lago è detto “arcoboàn”, ossia dell’arcobaleno? Ebbene, fino a qualche tempo fa non si restava delusi. Io lo vidi per la prima volta in autunno, in un mattino gelido che si concluse con una spolverata di neve fine. Sul lago c’era un velo di ghiaccio che zigrinava la superficie, rendendolo ancora più scintillante. Dietro, maestosa, la mole del Latemar e quella del Catinaccio, coi loro pinnacoli di pietra. Una visione di pace e di armonia, che rasserenava lo spirito, soprattutto in bassa stagione quando il lago era immerso nel silenzio.

C’è anche una leggenda legata al lago di Carezza. Si racconta della bella ninfa Ondina, che ne abitava le acque. Lo stregone del Latemar se ne era perdutamente innamorato e tentò più volte di rapirla. Un giorno, per incanto, fece apparire sopra al lago un bellissimo arcobaleno allo scopo di attrarre la ninfa e portarsela via. Quando Ondina salì dalle acque e vide lo stregone fuggì terrorizzata; allora lui, accecato dall’ira, distrusse l’arcobaleno in mille pezzi come fosse uno specchio. I frammenti caddero nel lago e si sciolsero nell’acqua, donandole, come per magia, i colori dell’iride.

Purtroppo oggi lo scenario che avvolge il lago di Carezza è molto cambiato. Il 30 ottobre 2018 tutta la zona è stata devastata dalla tempesta Vaia, con raffiche di vento che, sul passo Rolle in Trentino, hanno superato i 200 km/h. Secondo il celebre alpinista Messner, si è trattato di venti paragonabili a quelli che si registrano sull’Everest. I boschi di larici e abeti che coronavano il lago sono stati abbattuti e il paesaggio è tuttora triste e desolato. Serviranno decenni perché tutto torni com’era e l’autunno infiammi di nuovo, coi suoi colori caldi, le foreste attorno alla dimora della ninfa Ondina.

Le spiagge bianche di Rosignano Solvay: i Caraibi in Toscana

Mare turchese e sabbia candida come alle Maldive, ma dietro c’è un segreto un po’ inquietante

No, non siamo a Santo Domingo o giù di lì, anche se tutto la fa pensare, e no, le foto non sono photshoppate. C’è un luogo nella nostra bella Toscana dove il mare ha un colore così turchese da sembrare irreale e la sabbia è candida come farina. Si tratta delle Spiagge Bianche di Rosignano Solvay, in provincia di Livorno, all’estremo lembo settentrionale della costa maremmana. Solvay vi dice qualcosa? Vi ricorda forse il bicarbonato? Ecco, ci avete beccato. Infatti la nota azienda chimica si trova circa a un km dalla spiaggia e il mare deve allo stabilimento il suo straordinario colore.

L’azzurro non è naturale, ma frutto dei residui di lavorazione sversati negli anni, ricchi di carbonato di calcio, che hanno via via sbiancato sabbia e fondale. La sodiera è la più grande d’Europa e venne costruita nel 1912 nei pressi della costa per produrre, oltre al noto bicarbonato di sodio, acido cloridrico, cloruro di calcio, polietilene e altre amenità chimiche. Nel 1917 si era già creato attorno alla fabbrica un vero e proprio paese, richiamando lavoratori da tutto il circondario, un territorio fortemente depresso e afflitto dalla malaria e dal brigantaggio. Il borgo venne chiamato Solvay Rosignano proprio in onore dei fondatori dell’azienda, i fratelli di origini belga Ernest e Albert Solvay.

All’interno di Rosignano Solvay sorse anche il Villaggio Solvay, raro esempio di “città giardino” in Italia. Si tratta di un insediamento residenziale in cui le abitazioni, realizzate con uno stile architettonico nordico, riflettevano le gerarchie interne dell’azienda: numerate in ordine crescente a seconda dell’importanza di chi ci abitava, andavano dalle case di tipo 1 per i dirigenti alle bifamiliari di tipo 7 per gli impiegati fino a quelle di tipo 9, con quattro appartamenti, per gli operai. Lo so, a noi la cosa fa venire in mente suggestioni di fantozziana memoria ma all’epoca il villaggio, progettato su una maglia ortogonale, aveva un aspetto unitario e autosufficiente. C’erano scuole, un ospedale, il circolo-teatro a prezzi popolari che richiamava grandi folle, aree verdi ricreative e pure un casino-foresteria.  

Oggi gli stabilimenti della Solvay continuano la loro produzione, circondati da dune di sabbia abbacinante, al cospetto di un lungo pontile a cui attraccano le navi. Dall’azienda arriva un canale che sversa in mare un’acqua di uno strano colore opalescente. A intervalli regolari si levano dalla sabbia dei cartelli con su scritto “Divieto di balneazione”, ma per molti la tentazione è troppo forte e in estate si contano sempre tante persone che fanno il bagno. I più, increduli, si dilettano ammirando le sfumature dell’acqua e scattando foto agli amici per dire di essere alle Barbados. Pensate che, nonostante tutto, questo tratto di costa è stato insignito più volte con la Bandiera Blu.

Io, invece, non ho più voglia di camminare

Mi chiedo quale tragedia debba accadere per sommergere le lamentele dei sani, in un paese dove i denunciati perché fuori casa senza motivo continuano a superare il numero dei contagiati. Mi chiedo che cosa debba succedere ancora, più di una colonna di bare portate da Bergamo qui a Modena per motivi di spazio e tempo al crematorio, senza funerali, persone morte in solitudine in una stanza bianca, per fare deporre alla gente l’Italica voglia di non pensarci, l’incapacità di coprirsi di un commosso silenzio dove, almeno per un po’, non ci sia spazio per il proprio micromondo fatto di “ma io però devo, ma io però se non cammino almeno un’ora, ma io però ho bisogno di, ma io però ho dei bambini e non ho il coraggio di, ma io…”
Io, io, io.
Lasciamo parlare un po’ anche i morti, la colonna di bare che in questo momento il forno crematorio di Modena sta portando via. Non vi sentite naufragare davanti a tutto questo?
Io sono un camminatore, ma non ho più voglia di camminare. E sono pure un viaggiatore patologico, ma guardate – miracolo! – sono guarito, perché non ho più voglia neanche di viaggiare. E il bello è che sono sereno e grato a Dio per essere in salute, almeno fino a oggi. Ho spiegato serenamente ai miei bimbi che non si esce e non si torna a scuola e ho detto loro di non lamentarsi perché se no papà si arrabbia molto. Penso che usciranno da tutto questo educati e migliori.
Quando domattina verranno a dirci che è vietato uscire per andare a fare la spesa e che ogni tre giorni verranno i militari a portarci quello che serve, uguale per tutti e razionato, mi raccomando, qualcuno protesti: “Ma se io in tutta sicurezza mi metto la mascherina, e vado nel supermercato che mi piace all’ora in cui ci sono meno persone, avrò ben diritto di comprare e mangiare la Nutella, e non questa pseudocioccolata militare, visto che i miei bimbi, che non hanno colpa, non la mangiano”.
Ancora io, io, io.
Quelli che non hanno colpa sono tanti, ma non sono tutti uguali; per dirla come un grande saggio, qualcuno è più innocente degli altri. Ad esempio, i morti. Oppure quelli che rischiano anche in questo momento perché stasera, alle ore 18, nel consueto bollettino di guerra, la conta sia meno tragica. Poi vengono tutti gli altri innocenti in ordine sparso, tra cui io, i miei figli, la tizia che in questo momento sta spazzando il balcone, quello che vuole mangiare la Nutella e l’amico podista che se non corre impazzisce per l’ansia, il barista che non guadagna un euro da settimane, l’indebitato, il carcerato che giustamente merita la gattabuia ma non la morte in carcere per coronavirus, i miei studenti, quelli che non vedono la morosa, etc… Mai così tanti innocenti come durante un’epidemia. Cioè, una pandemia.
Il fatto è che non ce la meritiamo davvero tutta questa democrazia. Facciamoci coraggio: stiamo in casa con le nostre famiglie, accontentiamoci del sole alla finestra, soffriamo idealmente con chi soffre, abbracciamo idealmente chi cerca di curare, lasciamoci permeare una volta tanto dalle immagini che scorrono in TV, perché la cosa seppur dolorosa, ci renderà migliori. Tipo uomini degni di questo splendido Paese ricevuto gratis. E chi crede, preghi tanto tanto.

La mia seconda “quarantena”

Perché l’isolamento, se non sei ammalato e hai ciò che conta davvero, non è poi questa tragedia

Quella che stiamo vivendo tutti noi, in questi giorni, è la mia seconda quarantena, o periodo di isolamento forzato. Quando successe la prima volta, ormai diversi anni fa, mai avrei immaginato né di rivivere un periodo anche solo simile, né che insieme a me, loro malgrado, sarebbero finiti tutti i miei connazionali. Se da un lato è umano soffrire davanti alla solitudine, alla (relativa) immobilità e al diradarsi delle relazioni con le persone a cui vogliamo bene – almeno le relazioni in presenza – dall’altro è amaro notare il disimpegno di tanti, refrattari a qualsiasi minimo sacrificio, e soprattutto l’incapacità di convivere con se stessi, accettando l’immagine di noi che bene o male si riflette nello specchio delle nostre giornate.

Al di là del contesto assolutamente non paragonabile e limitandomi al solo stato di isolamento, posso dire che quello in cui sono impantanato, qui a casa mia e coi miei famigliari, è assai migliore di quella che mi trovai ad affrontare in passato, quando mi diagnosticarono la tubercolosi. Intanto adesso sono in salute e non è poco. Oltre a questo ho una priorità, che dovrebbe essere di tutti, e una strada dritta da percorrere. La priorità è non ammalarmi e il resto sono cazzate; la via da percorrere è stare in casa, dove va tutto bene. Con me ci sono la mia famiglia, che riempie il tempo, film, libri, pensieri e un po’ del mio lavoro. Se non ci fosse il lavoro, sarei più rilassato, non più annoiato, ma non lamentiamoci. Quale lavoro? L’insegnamento e la scrittura. Ho dovuto imparare di nuovo a fare l’insegnante, attrezzandomi, e devo dire che questa esperienza mi sta già dando delle soddisfazioni: è rasserenante ritrovare ogni mattina i miei studenti on line, più o meno puntuali come in aula. C’è chi chiacchiera, chi è in pigiama, chi mentre spiego inzuppa i biscotti nel tè, ma siamo tutti insieme e sento che abbiamo bisogno gli uni degli altri. La quarantena mi ha proiettato di colpo nel 2020, io che amo la lentezza e sono allergico alla smart mania: tre settimane fa avevo un vecchio PC che, devo dire, non mi ha mai fatto mancare il dovuto, e una chiavetta internet comprata ormai 8 anni or sono. È tutto. Adesso ho una la fibra veloce – si dice così? – la lavagna digitale, un PC migliore, tanto software imparato a usare per non fare mancare agli studenti delle lezioni dignitose. L’ho fatto per loro, mica per me, però ieri sera ho guardato con godimento il mio primo film su Netflix – pagata da mio suocero – mentre accanto alla TV sonnecchiava la pila dei DVD presi a noleggio in biblioteca prima che iniziasse l’epidemia. Cioè, la pandemia.

Quando mi ammalai di tubercolosi la storia era molto diversa. Allora, tra l’altro, non ero insegnante e mi venne anche bloccato il contratto, ossia niente stipendio. A parte questo, in certi istanti di cui mi pento immediatamente per vergogna ho quasi nostalgia della sensazione di pace e serenità che mi capitò di vivere allora. Succede così solo quando riusciamo a impreziosire il vuoto con un senso o con la fede. Il vuoto infatti non si riempie da solo, se no è un allagamento, e già l’idea è tutt’altro che consolante. Per questo dico che a mio avviso ciò che salva, che traghetta al riparo da ogni naufragio, non è la salute. Quella passa. L’importante è la spiritualità, che poi può essere fede – come nel mio caso – o più laicamente certezza di un senso che sottende i fatti. Se manca questo, non c’è architrave che tenga e ben comprendo l’irritazione a fare nostro qualsivoglia sacrificio, l’incapacità di reggere la noia e il panico in alcuni.

La mia quarantena da tubercolotico tracheobronchiale e polmonare sinistro – avevo i bronchi piagati – non durò due o tre settimane, ma furono quaranta giorni esatti. Non c’era l’ora d’aria: niente spesa o passeggiata o passeggiata col cane noleggiato dal vicino. Era Natale e avevo due bambini piccoli, che soffrirono parecchio la cosa; soprattutto mio figlio, preoccupato che papà non lo volesse più. Sì, perché appena arrivò la diagnosi mia moglie e i miei bambini dovettero trasferirsi dai nonni affinché potessi restare in isolamento. Alla totale solitudine aggiungiamo che stavo piuttosto male, un po’ per la malattia un po’ per gli effetti collaterali (acufeni, dolore agli occhi, mal di stomaco…) dei 4 antibiotici della terapia, divisi in comode dosi di 12 pastigliozze al giorno. Poi, sapete com’è… C’erano i vari timori irrazionali figli di puttana, cioè di internet, nonostante le rassicurazioni dei bravissimi medici che mi seguivano, ossia il non riuscire a reggere la terapia, rimetterci l’udito, essere affetto da una forma di tubercolosi resistente ai farmaci e via dicendo. Andò invece tutto bene, a parte l’acufene che è rimasto ma siamo diventati amici: basta ignorarsi a vicenda.

Premesso questo, quei giorni in isolamento furono un’occasione di leggerezza e continua riscoperta delle piccole cose e del piacere di fare silenzio nel proprio intimo, che poi vuol dire togliere per fare posto ad altro. Un po’ come il digiuno. La mia giornata iniziava molto presto e finiva tardi. Per non sentirmi solo, cominciai a recitare – subito senza molta voglia, lo ammetto – le tre preghiere fondamentali della Liturgia delle Ore: lodi al mattino, ora media a mezzogiorno e vespri la sera. Mi consolava pensare che in quel momento migliaia di uomini e donne in migliaia di conventi e monasteri stavano facendo la stessa cosa, condividendo le medesime meditazioni. Sentirsi parte di una comunità, vi assicuro, aiuta ad affrontare qualsiasi quarantena. Ditemi voi se non siamo oggi una comunità che attraversa insieme lo stesso mare! Poi leggevo, ma non tanto. Guardavo un film al giorno, scrivevo senza fretta quello che sarebbe poi diventato il nuovo libro, pulivo a fondo la casa, visto che era l’unico modo per tenermi in movimento (con grande gioia di mia moglie quando sarebbe tornata), facevo foto in interni con la mia Reflex – così, per impratichirmi – ascoltavo intere sinfonie, tipo la settima di Beethoven, che ancora oggi mi commuovono.

Quando la solitudine non è uno sbando, ma un altrove ben abitato, accadono dei fatti che stupiscono. Ad esempio, veniva a trovarmi un merlo sul balcone e stava lì, ad aspettarmi. Gli lasciavo da mangiare e direi che siamo diventati amici; dopo qualche giorno dalla fine della quarantena non l’ho più visto. Riscoprii anche il piacere di scrivere lettere a mano. Per i miei bambini, che allora avevano 4 e 2 anni e che appunto avrebbero passato le feste di Natale lontani dal papà, dalla loro casa e dai loro giocattoli. Venivano a trovarmi in cortile e io parlavo loro dal balcone e lanciavo ogni volta un aeroplano di carta che in realtà era una letterina. Trasformai la mia malattia in una favola: mondi lontani che ero impegnato a esplorare e fatti incredibili di cui ogni giorno ero testimone, mio malgrado, dal balcone. Mia figlia illustrava queste improbabili avventure, lasciandomi poi i disegni sotto la porta.

Anche oggi, mentre vivo questo nostro periodo di isolamento con apprensione per i tanti malati che muoiono soli, nonché per il mondo che ci aspetta quando tutto sarà passato, mi capita di ripensare ai disegni che mi mandava allora la mia bambina. Ce n’è uno dove una signora sta andando a liberare il proprio pappagallino mentre io faccio bolle di sapone dal terrazzo, che il vento porta poi lontano. Così il pappagallino le seguirà senza paura – lui che è cresciuto in gabbia e neanche sa che cosa sia il cielo – e troverà di certo la strada per quel luogo che si chiama Amazzonia, dove l’aspettano la sua mamma e il suo papà.

Immagine di copertina di Michael Rogers, CC BY-SA 3.0, commons.wikipedia.org

Andare al Polo Nord o al Polo Sud? Ecco come

Un sogno neanche troppo difficile da realizzare, a parte il prezzo

Qualche tempo fa è uscito un libro molto carino, che ogni viaggiatore (o sognatore) dovrebbe avere in casa. Si chiama “Atlante delle isole remote. Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò”, di una certa Judith Schalansky, appassionata di carte geografiche. Potrei iniziare nello stesso modo: ecco due luoghi dove non sono mai stato né mai andrò, presumibilmente. Trattasi del Polo Nord e soprattutto del Polo Sud. A dire la verità, almeno l’80-90% delle isole sperdute citate dalla Schalansky sono più facilmente raggiungibili rispetto ai poli geografici del Pianeta: servono solo un po’ di soldi e un sacco di tempo.

Il lato positivo dell’andare ai Poli è che non occorre un sacco di tempo e che, almeno sulla carta, arrivare in queste due esotiche destinazioni non è poi un’impresa tanto ardua. Basta coprirsi bene con la maglia della salute, amare la neve, avere un po’ di spirito di adattamento, essere preparati alla sconfitta – visto che se fa brutto tempo la missione salta – possedere qualche nozione base di campeggio e sapere sciare. È sufficiente lo sci di fondo, dato che i tragitti sono pressoché pianeggianti. Ah, un’ultima cosa: purtroppo è necessario avere un discreto conto in banca.

Partiamo dal Polo Nord, che è più vicino a casa e costa meno. Intanto, alcuni dati. Siamo nel Mar Glaciale Artico, in mezzo a una landa abbacinante martoriata da venti pazzeschi. L’esploratore statunitense Robert Edwin Peary, nel 1909, sostenne di averlo raggiunto per primo, insieme a 4 eschimesi e 40 cani da slitta. Oggi una spedizione tipo al Polo Nord parte dalle Isole Svalbard, in Norvegia, raggiungibili dall’Italia con qualche scalo. Parentesi: se non avete mai visitato le Svalbard, fermatevi qui e rimandate il Polo. Chiusa la parentesi. Dopo due o tre giorni per preparare la logistica e prendere confidenza con le attrezzature (slitte, tende, etc.), si parte in aereo per la base scientifica russa di Barneo, che si trova sul ghiaccio alla deriva a 89° di latitudine nord. È l’unico rifugio nel Mar Glaciale Artico e già arrivarci è una bella emozione. Dalla base, clima e condizioni del ghiaccio permettendo, il Polo Nord geografico si trova (più o meno) a portata di mano: otto-dieci giorni di attraversata con sci e slitte, pernottando in tende da spedizione. Arrivati dove si incontrano i meridiani, ci aspetta qualche ora di meritata sosta per le foto e una telefonata di due minuti col telefono satellitare per bullarsi con mogli, amanti e amici del bar. Il rientro alla base di Barneo avviene in elicottero e da qui dritti alle Svalbard. Durata prevista del viaggio AR: circa 16 giorni, tratte da e per l’Italia escluse.

Vediamo adesso il Polo Sud, ossia il sogno del sottoscritto (il Polo Nord è ormai troppo inflazionato…). La meta si trova a quasi 3.000 metri di quota, 2.700 dei quali di purissimo ghiaccio, su un altopiano che definire gelido è riduttivo. In queste zone vengono abitualmente registrate le temperature più basse del pianeta: il mare, con la sia azione mitigante, è infatti lontanissimo e la luce solare viene riflessa dallo strato di neve. Tutto ciò premesso, noi ci vogliamo andare lo stesso. Il punto di partenza è Punta Arenas, in Cile, che i partecipanti possono raggiungere con mezzi propri, ossia un volo da Santiago. Da qui, con 4-5 ore di volo si arriva al Campo Base di Union Glacier, da cui partono tutte le spedizioni al Polo Sud. Durante il volo, sempre clima permettendo, è possibile ammirare la Terra del Fuoco, gli iceberg e la banchisa antartica. Segue qualche giorno di acclimatamento all’Antartide, anche per prendere confidenza con le attrezzature. L’89° di latitudine, nel cuore del “plateau” polare, verrà raggiunto da Union Glacier ancora in aereo. Adesso la parte più emozionante del viaggio: 6 giorni di impegnativa marcia sugli sci per rivivere le sensazioni provate da Amundsen e Scott cento anni fa, fino alla mitica asticella metallica da cui si dipartono tutti i meridiani (foto di copertina). Il ritorno a Union Glacier è in aereo, quindi rotta verso Punta Arenas e ognuno a casa propria.

Veniamo al lato economico. Quanto costa la partita? Ci sono varie agenzie che organizzano la spedizione. In Italia, ad esempio, potete dare un’occhiata sul sito di Terre Polari, dove troverete un ampio carnet di proposte per esperienze into the wild, dall’Alaska alla Groenladia. Per il Polo Sud si spendono almeno 60.000 $, cifra che non comprende i voli AR per Punta Arenas. Il Polo Nord è più popolare, con itinerari che prevedono anche nave rompighiaccio o solo elicottero; quest’ultima opzione è chiaramente molto più rapida ed economica. Il viaggio che vi ho descritto sopra parte da 33.000 Euro.

Che dire? Ne vale la pena? Avendo quei soldi, io penso proprio di sì.

Foto di copertina: Kuno Lechner  GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html), CC-BY-SA-3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0/) or CC BY-SA 2.5 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.5 via Wikimedia Commons

La terra più contesa del mondo? Un orribile scoglio in mezzo all’Atlantico

Vi dico subito che non ci sono mai stato, ma la cosa non mi turba particolarmente. Il posticino protagonista di questa storia si chiama Rockall. Oppure Rocabarraigh in irlandese. O ancora Sgeir Rocail in gaelico scozzese. E dove la mettiamo la carezzevole versione islandese Rockalldrangur? Nonché il faroese (che sarebbe la lingua delle remote isole Fær Øer) Rockall o Rokkurin. Insomma, una simile sequela di nomi calzerebbe a pennello sul passaporto di qualche pingue sovrano. In realtà stiamo parlando di un assai meno regale scoglio, tra l’altro coperto di cacca d’uccelli.

Questo poco appetibile sassone alto dai 20 ai 30 metri, a seconda delle condizioni del mare, sorge come un’anima in pena nel mezzo dell’Atlantico del Nord, dove la nebbia è fitta, l’onda alta e la solitudine totale. Ecco le coordinate, se uno desidera fargli una visitina virtuale: 57°35′48″N 13°41′19″W. Ebbene, il nostro amico Rockall, che in realtà è la cima di un vulcano, è conteso all’arma bianca da ben quattro Paesi, ognuno dei quali appunto l’ha ribattezzato nella propria lingua. Il quartetto a briscola è composto, in ordine sparso, da Islanda, Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Che poi quest’ultima disti dallo scoglio più che la Francia o il Belgio poco importa, poiché fortuna vuole che lo Jutland possa partecipare alla diatriba marinara grazie alle patrie isole Fær Øer, in effetti assai prossime all’oggetto del contendere.

Naturalmente questi Paesi non si stanno dando battaglia con l’intento di impiantare una colonia sull’isola che non c’è, o al minimo un penitenziario di massima sicurezza. L’interesse in gioco è più concretamente legato al petrolio che si nasconderebbe nei fondali circostanti e, in parte minore, alla volontà di sfruttare in via esclusiva le risorse ittiche locali. In effetti, l’eventuale proprietario di Rockall vedrebbe espandersi le proprie acque territoriali. Parentesi: su tali acque aleggiano tetre maledizioni, visto i tanti naufragi in zona fin dal tardo ‘600, che farebbero del posto la più grande lapide sulla faccia del Pianeta.

Il problema, al di là degli atti parlamentari della varie Maestà, è che secondo la Convenzione delle Nazioni Unite per il diritto internazionale marittimo, si definisce “isola” qualunque terra, per brutta che sia, in grado di assicurare la vita degli ipotetici colonizzatori. Diversamente, si tratta appunto di uno scoglio e come tale è Patrimonio dell’Umanità, ivi compresi i tesori in termini di forzieri affondati, idrocarburi e guano per impiego nel campo dei fertilizzanti. La scappatoia è dunque legata alla possibilità di occupare la roccia in pianta più o meno stabile, magari con faro simbolico.

Ebbene, hanno fatto pure questo. Non il faro, ma l’invasione. Ci provarono, ad esempio, nel 1955, quando un naturalista e tre militari della Royal Navy vennero spediti da Londra a conquistare Rockall. La colonia ebbe tuttavia vita breve e il mare tornò presto a regnare in casa propria. L’occupazione più scenografica è stata quella di Greenpeace, che nel ’97 mandò sul sassone un manipolo di attivisti che fondarono lo Stato libero di Waveland, o «terra delle onde», per protestare contro lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi sommersi. Come ben sappiamo, è la finanza che governa la vita delle Nazioni: Waveland, pertanto, ebbe vita breve (42 giorni). Giusto il tempo di veder fallire la società che aveva sponsorizzato la colonizzazione.

Oggi l’isolotto fantasma continua la sua lotta con le onde, ignaro di essere un pezzo di mondo tanto desiderato. Una leggenda vuole che Rockall sia l’ultimo frammento del fiabesco Regno di Brazil, la terra dell’eterna giovinezza. Who wants to live forever? Cantavano gli indimenticabili Queen. Fate voi se vivere a Rockall vale il prezzo dell’immortalità.

Foto di copertina: commons.wikimedia.org

©DEVISBELLUCCI Se copiate il testo senza chiedere subirete l’ira mia e di Quelo, a cui sono assai devoto dagli anni ’90.

Quando giravo l’Italia come uomo sandwich

È passato ormai un po’ di tempo da quel 2010, quando uscì il mio romanzo L’inverno dell’alveare (A&B Editrice). Amavo moltissimo quella favola sull’esplorazione che aveva come protagonista una piccola ape terrorizzata dall’eventualità di non riuscire a superare l’inverno, come di solito accade per tutti gli insetti della sua specie. Fu una gioia scrivere quella storia e ancora più bello era raccontarla, magari ai bambini delle scuole. Così decisi, senza troppo pensarci sopra, di unire le mie due grandi passioni: la scrittura – appunto – e il viaggio. Ci voleva un modo garbato e originale per portare in giro il libro; insieme a mia moglie, la giocammo un po’ sull’ironia. Così nacque l’uomo sandwich.

Non è forse vero che ogni storia è biografica? Che dentro alle pagine di un libro pulsano, in controluce, la vita e l’esperienza dell’autore? Racchiudermi “fisicamente” tra la copertina e la quarta del mio romanzo mi sembrò una metafora azzeccata. Costruire il sandwich costò pochi Euro. Mi era rimasto infatti un curioso costume di carnevale dall’anno prima, quando sempre con mia moglie interpretavamo Alice nel paese delle meraviglie. Lei faceva Alice, io la carta da gioco (neanche l’asso di briscola: se ricordo bene ero tipo un quattro di quadri). Riciclai il costume, attaccandoci sopra copertina e quarta de L’inverno dell’alveare stampati in formato poster, e voilà.

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L’idea era di passeggiare come uomo sandwich un po’ per tutta Italia, immortalando l’impresa con le foto per realizzare un book, sperando che la gente mi notasse e corresse a comprare il libro, mossa a compassione. Allora non c’erano (cioè, forse c’erano ma non li usavo) twitter e instagram, quindi le foto venivano pubblicate via via su facebook. Dedicammo al progetto “L’Italia con gli occhi un uomo sandwich” tutti i fine settimana, le ferie, i ponti e il tempo libero per un anno e mezzo.

Non rompevo l’anima a nessuno, proprio come fanno i libri sugli scaffali: tacciono e aspettano di essere avvicinati da una mano (e da una mente) curiosa. Allo stesso modo, camminavo, portandomi addosso il sandwich. Mia moglie passeggiava con me e faceva le foto. Attorno, gli scenari più belli d’Italia, dal Piemonte al Lazio alla Puglia. Montagne, laghi, cavalcavia, piazze, spiagge. Nei luoghi più affollati mi venne un’idea altamente simbolica. Toglievo il sandwich e lo posavo a terra, mettendoci sopra una candela accesa. Chi accenderebbe una candela di giorno, all’aperto? Nessuno. Fa poca luce, è inutile e se va bene sta accesa cinque secondi. Proprio come la poesia e la letteratura: deboli spunti di meraviglia che vanno notati, protetti, sollevati dal rumore di fondo che può travolgerli da un momento all’altro. Ok: è una pippa mentale e non ebbe molto successo. Ricordo una reazione simpatica a Roma. Stavo in Piazza Navona, lì a fotografare la mia candela accesa sul sandwich. Passa una tizia con una bimba per mano, mi guarda e commenta: “Ma guarda questo! Con tante cose belle da vede’ sta a fa’ ‘na foto a ‘na candela”.

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L’esperienza come uomo sandwich fu prima di tutto un bellissimo (e lungo e faticoso) viaggio nel nostro Paese, attraverso borghetti e meravigliosi scorci che diversamente non avrei mai conosciuto. Come giornalista, “campo” ancora un pochetto (per modo di dire) sul patrimonio di luoghi scoperti durante quell’anno e mezzo, catalogati nell’archivio dei miei pensieri. Trovai anche lo spunto per un successivo romanzo passando da Sirolo, nelle Marche, e Goro, sul delta del Po, ma questa è un’altra storia. In più, fu un interessante e silenzioso esperimento antropologico. Indovinate quante persone mi hanno fermato, importunato, interrogato?

Nessuno. Zero. Tanto a Milano quanto a Napoli sono stato trattato come a Craco, un paese fantasma vicino a Matera. Poi dicono che siamo un popolo curioso! Il bello succedeva invece on-line, nella realtà virtuale (quella reale era appunto di calma piatta). Quando pubblicavo le foto e raccontavo il mio pellegrinaggio letterario, la gente mi contattava entusiasta e prodiga di complimenti. Sono nate tante amicizie e conoscenze e mi hanno intervistato decine di radio e giornali, dai bollettini parrocchiali alle grandi testate nazionali. Fiumi di domande, davvero. Ma quanto ti costa? E qual è stato il posto più bello? Ma per mangiare te lo togli il sandwich? E per fare… Insomma, hai capito per che cosa… Come fai?

Ebbene, secondo voi, in tutto questo effluvio di interviste che mi facevano sentire anche bello, quante volte mi è stato chiesto di che cosa parlasse quel benedetto libercolo per cui mi stavo riempiendo i piedi di vesciche?

Una manciata. Solo che spesso questo pezzo veniva poi tagliato in fase di pubblicazione, per comprensibile mancanza di spazio. Quelli più curiosi del libro che del mio camminare erano i bimbi nelle scuole. Forse un bambino non ci trova niente di strano a fare il vagabondo tra due cartoni pubblicitari. Fu una gioia leggere per loro, far capire che una storia può essere davvero così importante da volerle donare un paio di gambe per farla arrivare lontano.

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Otranto (Lecce)

Ultima domanda e chiudo. Secondo voi, tutto questo cinema fece vendere un sacco di copie? Ovviamente no: è infatti molto difficile che uno vada a cercare un libro, uscito diversi mesi prima, solo perché ha letto dell’autore che fa l’uomo sandwich. Ti devi segnare il titolo, manca la recensione (per carenza di spazio, vedi sopra) e le grandi librerie tengono solo le novità e i classici, ma non le vie di mezzo. Soprattutto se l’autore è un benemerito sconosciuto.

Ne è valsa la pena? Altro che sì. Anzi, è una delle cose di cui vado più fiero. Fosse solo perché abbiamo iniziato in due e alla fine del viaggio eravamo in tre. Ho visto crescere la panciotta di mia moglie sullo sfondo delle Cinque Terre, della Torre di Pisa, dei ghiacciai dell’Adamello fino a Santa Maria di Leuca. Un gravidanza on the road, cullata da quanto di più bello ci sia nel mondo.

A questo punto: di che cosa parla il romanzo “L’inverno dell’alveare”?

Assunto che, probabilmente, il mio editore è più contento se leggete l’ultimo romanzo “La cura” (A&B Editrice), potete trovare qui diverse recensioni sul libro che mi portò a girare l’Italia come uomo sandwich e a scegliere di occuparmi (anche) di viaggi.

A spasso con Wilma, il mio romantico camper scassatuccio

Mio nonno, nel fervore della sua saggezza contadina, era solito dire: «Chi meno spende, più spende». Il motto significherebbe, più o meno, che acquistando qualcosa a basso costo, poi ti ritrovi con un aggeggio scassato o poco funzionale, con la certezza di dover spendere tempo e denaro o per ripararlo, o addirittura per comprarne un altro. Meglio dunque scegliere da subito un buon articolo, pagandolo quel che serve. Tranne le acciughe: lì si può risparmiare. Tanto mio nonno le acciughe non le mangiava. E il vino: anche lì si può risparmiare, visto che dalle nostre parti il Lambrusco costava meno dell’acqua con la Cristallina®. Piuttosto, ve la ricordate? Guardate qui.

Premesso tutto ‘sto pippone e seguendo paro paro il ragionamento, alcuni mesi fa abbiamo comprato un camper. È che noi viaggiamo molto per il (terzo) lavoro che faccio, cioè il giornalista di viaggi, cultura e lifestories, e siccome di principio i figli e la moglie devono stare col padre – e non li posso spacciare per segretaria e due fotoreporter – la spesa ormai cresceva a dismisura. Fino all’anno scorso, anche se eravamo in 4, stringevo un po’ i bambini al check-in e, in virtù di due lettini portatili che mostravo con un vasto sorriso, ci davano comunque la doppia. Schifati. Poi la cosa è diventata poco credibile, oltre al fatto che mia figlia di 6 anni non ci sta più in un lettino omologato 36 mesi. A meno che non dorma verticale.

Dando ragione al nonno, abbiamo cercato su amazon il camper che costasse meno in assoluto. In fondo doveva essere poetico, fare quel profumo di strada che… Insomma, da struggere il cuore. E che consumasse una fischiata, naturalmente. Poi doveva avere le cinture anche dietro, se no come si fa a infilare i seggiolini dei bambini e i bambini nei seggiolini? Mia moglie non volle sentire ragioni: lei in braccio fino a Capo Nord non li teneva. La cosa apparve da subito disperata, nonostante il nostro budget fosse adeguato, addirittura milionario (in vecchie lire).

Sognavo un Volkswagen, di notte. Con sopra una chitarra e Janis Joplin. Diventò presto un’ossessione.

Beh, lo trovammo. In dieci giorni. Non su amazon, ma su subito. Vicino a casa nostra. E dietro, un orgoglioso patacchino con scritto GB – Gran Bretagna. Perché l’avevano immatricolato là. 2500 cc aspirato in condizioni pari all’età mostrata – 22 anni – ma con pochi chilometri (a meno che un meccanico compiacente bastardo che li avesse truffaldinamente abbassati). Il solito nonno avrebbe detto cl’era un rutàm e me a soun un sfighe, che con un batoc damand quel lè sot al cul al masem a s’ariva al Bastia con vento a favore (trad. dal modenese: il nonno avrebbe detto che era un ottimo acquisto, a parte la necessità di una riverniciatura, ma non importa).

Lo comprammo pagandolo meno della richiesta iniziale, perché ci fecero uno sconto esagerato. Ero felice. Anche mia moglie. Mia figlia, medio. L’altro giocava coi dinosauri. E lo portammo a casa in un giorno di pioggia. Il cambio non funzionava, ma un po’ di manutenzione è necessaria e va data per scontata. La marcia entrava dalla terza in su, che se si tratta di un reggiseno ha un suo perché ma in fatto di meccanica non saprei. C’era pure da fare la cinghia di distribuzione. Non una, due. Perché i camper ne hanno due, appunto. E chi lo sapeva? E il meccanico trovò alcuni topi mummificati nel filtro dell’aria, mentre l’olio del motore si era burrificato nell’aspettativa. Ma ci sta, sì.

Così diedi al mio camper un nome di donna. La Wilma. Faceva un rumore in stereofonia, ma andava come il vento in bonaccia. 65 km l’ora da casello a casello. Allora abbiamo smesso di prendere l’autostrada, per rispetto nei confronti dei camionisti pazienti. Dopo un primo viaggio in Toscana dove sembrava che non andasse più in moto – ma stava solo scherzando – e uno a Loreto perché dovevo sciogliere un voto, siamo poi partiti per il primo viaggio lungo. Il più è stato superare le Alpi. Modena – Vipiteno tempo di percorrenza 12 ore. Ci ha superato Annibale in ritorno da Roma, elefanti inclusi. Arrivati a Lubecca, in Germania, si è rotta la porta, così per 40 giorni siamo entrati dalle portiere davanti, come Bo e Luke di Hazzard. I bimbi ogni tanto li passavano dai finestrini. Però voglio dire che non siamo mai rimasti a piedi. Una volta ho beccato anche due autovelox in città. Perché la Wilma fa i 65 km orari sempre, quando si impunta, e diventa hard rallentarla. Forse è un fatto di scaramanzia, non so.

E ricordo, quando arrivammo in un posto della Danimarca dove diluviava, con l’acqua che infiltrava dal soffitto in più punti, regalandoci un’atmosfera così romantica, che ho chiesto a mia figlia: «Maya, tesoro, allora ti piace il campeggio?». E lei: «Guarda, papi, a dire la verità a me piace anche arrivare nei posti e andarmi a rilassare in albergo». E ho chiesto a mio figlio, che ha 4 anni, «Filippo, a te piace, invece?». E lui: «Da quando siamo partiti guardo solo i cartoni nella TV e faccio la cacca nel bagno. Questa è la mia vita».

Poi si sono abituati. Pare. Anche perché nel 2018 dobbiamo andare in Ucraina e nel Caucaso.

Perché tremori?

Perché fondamentalmente vengo dalla campagna, amo il silenzio per ascoltare la natura che vive e ho negli occhi l’immagine del nonno, quando metteva il lambrusco nel minestrone e stava tranquillo a due condizioni: 1) che fossa stata fatta la vendemmia, col vino a maturare in cantina e 2) che fosse stata fatta la legna per l’inverno, spaccata e impilata sotto la tettoia, accanto al fienile. Tutto il resto viene dopo e di conseguenza.

Tremori allora quando il mondo diventa surreale: troppo complicato per capirlo, troppo raffazzonato per non riderci sopra, troppo meticcio per non perdersi. Insomma, un’ottava sopra. Qui vi racconterò non solo esperienze, destinazioni o luoghi che, per dirla alla Woody Allen, mi attirano e mi ripugnano allo stesso tempo, e ripugnare non è un giudizio morale, ma un sorridere insieme di noi, delle nostre stranezze ed esagerazioni.

Ci sarà anche spazio per tutto ciò che è STRA, con annesse le indicazioni per andarci, ovviamente. Pertanto:

Non bello: STRAbello, da sembrare falso.
Non lussuoso: STRAlussuoso, da indurre come un senso di imbarazzo.
Non wild: STRAwild, only the brave.
Non romantico: STRAromantico, quasi patetico, in grado di far piagnucolare una mantide religiosa dopo che ha mangiucchiato il proprio amante.

E via dicendo.

Avete mai letto Una cosa divertente che non farò mai più di David Foster Wallace? È lo spassosissimo resoconto di una sua esperienza in crociera. Prima di leggere questo libro, la crociera era l’unico genere di viaggio che non mi interessava. Adesso non vedo l’ora di andarci: sono certo che io, oltre a divertirmi come un pazzo, ricaricarmi di storie da raccontare – anche di natura antropologica – e belle foto, alla fine lo rifarei pure (se qualcuno della Costa Crociere o simili sta leggendo queste righe e ha un buco libero per un viaggio stampa, corra subito alla mia pagina contatti: mi prenoto untuosamente).

Spero dunque, coi miei distinti e spettabili Tremori, di incuriosirvi e spingervi a viaggiare più di quel che non farei col mio Stupore. Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che affascina, strugge, diverte, massaggia, fa venire la pelle d’oca, si trasforma in un barbarico YAWP che risuona sui tetti del mondo.