Perché l’isolamento, se non sei ammalato e hai ciò che conta davvero, non è poi questa tragedia
Quella che stiamo vivendo tutti noi, in questi giorni, è la mia seconda quarantena, o periodo di isolamento forzato. Quando successe la prima volta, ormai diversi anni fa, mai avrei immaginato né di rivivere un periodo anche solo simile, né che insieme a me, loro malgrado, sarebbero finiti tutti i miei connazionali. Se da un lato è umano soffrire davanti alla solitudine, alla (relativa) immobilità e al diradarsi delle relazioni con le persone a cui vogliamo bene – almeno le relazioni in presenza – dall’altro è amaro notare il disimpegno di tanti, refrattari a qualsiasi minimo sacrificio, e soprattutto l’incapacità di convivere con se stessi, accettando l’immagine di noi che bene o male si riflette nello specchio delle nostre giornate.
Al di là del contesto assolutamente non paragonabile e limitandomi al solo stato di isolamento, posso dire che quello in cui sono impantanato, qui a casa mia e coi miei famigliari, è assai migliore di quella che mi trovai ad affrontare in passato, quando mi diagnosticarono la tubercolosi. Intanto adesso sono in salute e non è poco. Oltre a questo ho una priorità, che dovrebbe essere di tutti, e una strada dritta da percorrere. La priorità è non ammalarmi e il resto sono cazzate; la via da percorrere è stare in casa, dove va tutto bene. Con me ci sono la mia famiglia, che riempie il tempo, film, libri, pensieri e un po’ del mio lavoro. Se non ci fosse il lavoro, sarei più rilassato, non più annoiato, ma non lamentiamoci. Quale lavoro? L’insegnamento e la scrittura. Ho dovuto imparare di nuovo a fare l’insegnante, attrezzandomi, e devo dire che questa esperienza mi sta già dando delle soddisfazioni: è rasserenante ritrovare ogni mattina i miei studenti on line, più o meno puntuali come in aula. C’è chi chiacchiera, chi è in pigiama, chi mentre spiego inzuppa i biscotti nel tè, ma siamo tutti insieme e sento che abbiamo bisogno gli uni degli altri. La quarantena mi ha proiettato di colpo nel 2020, io che amo la lentezza e sono allergico alla smart mania: tre settimane fa avevo un vecchio PC che, devo dire, non mi ha mai fatto mancare il dovuto, e una chiavetta internet comprata ormai 8 anni or sono. È tutto. Adesso ho una la fibra veloce – si dice così? – la lavagna digitale, un PC migliore, tanto software imparato a usare per non fare mancare agli studenti delle lezioni dignitose. L’ho fatto per loro, mica per me, però ieri sera ho guardato con godimento il mio primo film su Netflix – pagata da mio suocero – mentre accanto alla TV sonnecchiava la pila dei DVD presi a noleggio in biblioteca prima che iniziasse l’epidemia. Cioè, la pandemia.
Quando mi ammalai di tubercolosi la storia era molto diversa. Allora, tra l’altro, non ero insegnante e mi venne anche bloccato il contratto, ossia niente stipendio. A parte questo, in certi istanti di cui mi pento immediatamente per vergogna ho quasi nostalgia della sensazione di pace e serenità che mi capitò di vivere allora. Succede così solo quando riusciamo a impreziosire il vuoto con un senso o con la fede. Il vuoto infatti non si riempie da solo, se no è un allagamento, e già l’idea è tutt’altro che consolante. Per questo dico che a mio avviso ciò che salva, che traghetta al riparo da ogni naufragio, non è la salute. Quella passa. L’importante è la spiritualità, che poi può essere fede – come nel mio caso – o più laicamente certezza di un senso che sottende i fatti. Se manca questo, non c’è architrave che tenga e ben comprendo l’irritazione a fare nostro qualsivoglia sacrificio, l’incapacità di reggere la noia e il panico in alcuni.
La mia quarantena da tubercolotico tracheobronchiale e polmonare sinistro – avevo i bronchi piagati – non durò due o tre settimane, ma furono quaranta giorni esatti. Non c’era l’ora d’aria: niente spesa o passeggiata o passeggiata col cane noleggiato dal vicino. Era Natale e avevo due bambini piccoli, che soffrirono parecchio la cosa; soprattutto mio figlio, preoccupato che papà non lo volesse più. Sì, perché appena arrivò la diagnosi mia moglie e i miei bambini dovettero trasferirsi dai nonni affinché potessi restare in isolamento. Alla totale solitudine aggiungiamo che stavo piuttosto male, un po’ per la malattia un po’ per gli effetti collaterali (acufeni, dolore agli occhi, mal di stomaco…) dei 4 antibiotici della terapia, divisi in comode dosi di 12 pastigliozze al giorno. Poi, sapete com’è… C’erano i vari timori irrazionali figli di puttana, cioè di internet, nonostante le rassicurazioni dei bravissimi medici che mi seguivano, ossia il non riuscire a reggere la terapia, rimetterci l’udito, essere affetto da una forma di tubercolosi resistente ai farmaci e via dicendo. Andò invece tutto bene, a parte l’acufene che è rimasto ma siamo diventati amici: basta ignorarsi a vicenda.
Premesso questo, quei giorni in isolamento furono un’occasione di leggerezza e continua riscoperta delle piccole cose e del piacere di fare silenzio nel proprio intimo, che poi vuol dire togliere per fare posto ad altro. Un po’ come il digiuno. La mia giornata iniziava molto presto e finiva tardi. Per non sentirmi solo, cominciai a recitare – subito senza molta voglia, lo ammetto – le tre preghiere fondamentali della Liturgia delle Ore: lodi al mattino, ora media a mezzogiorno e vespri la sera. Mi consolava pensare che in quel momento migliaia di uomini e donne in migliaia di conventi e monasteri stavano facendo la stessa cosa, condividendo le medesime meditazioni. Sentirsi parte di una comunità, vi assicuro, aiuta ad affrontare qualsiasi quarantena. Ditemi voi se non siamo oggi una comunità che attraversa insieme lo stesso mare! Poi leggevo, ma non tanto. Guardavo un film al giorno, scrivevo senza fretta quello che sarebbe poi diventato il nuovo libro, pulivo a fondo la casa, visto che era l’unico modo per tenermi in movimento (con grande gioia di mia moglie quando sarebbe tornata), facevo foto in interni con la mia Reflex – così, per impratichirmi – ascoltavo intere sinfonie, tipo la settima di Beethoven, che ancora oggi mi commuovono.
Quando la solitudine non è uno sbando, ma un altrove ben abitato, accadono dei fatti che stupiscono. Ad esempio, veniva a trovarmi un merlo sul balcone e stava lì, ad aspettarmi. Gli lasciavo da mangiare e direi che siamo diventati amici; dopo qualche giorno dalla fine della quarantena non l’ho più visto. Riscoprii anche il piacere di scrivere lettere a mano. Per i miei bambini, che allora avevano 4 e 2 anni e che appunto avrebbero passato le feste di Natale lontani dal papà, dalla loro casa e dai loro giocattoli. Venivano a trovarmi in cortile e io parlavo loro dal balcone e lanciavo ogni volta un aeroplano di carta che in realtà era una letterina. Trasformai la mia malattia in una favola: mondi lontani che ero impegnato a esplorare e fatti incredibili di cui ogni giorno ero testimone, mio malgrado, dal balcone. Mia figlia illustrava queste improbabili avventure, lasciandomi poi i disegni sotto la porta.
Anche oggi, mentre vivo questo nostro periodo di isolamento con apprensione per i tanti malati che muoiono soli, nonché per il mondo che ci aspetta quando tutto sarà passato, mi capita di ripensare ai disegni che mi mandava allora la mia bambina. Ce n’è uno dove una signora sta andando a liberare il proprio pappagallino mentre io faccio bolle di sapone dal terrazzo, che il vento porta poi lontano. Così il pappagallino le seguirà senza paura – lui che è cresciuto in gabbia e neanche sa che cosa sia il cielo – e troverà di certo la strada per quel luogo che si chiama Amazzonia, dove l’aspettano la sua mamma e il suo papà.
Immagine di copertina di Michael Rogers, CC BY-SA 3.0, commons.wikipedia.org