Anche se ho deciso di lasciarli dormire un po’ di più, alle 8:30 suona la campanella. Cinque minuti prima invio di nuovo ai ragazzi una mail con il codice della “riunione” su google meet, collego la tavoletta grafica, accendo microfono e webcam, faccio un po’ di spazio tra i fogli e i libri che come sempre sommergono la mia scrivania, dove c’è anche spazio – non so come – per un bonsai e alcune piante grasse. Appena mi vedono, arrivano tanti “Buongiorno prof!” più o meno allegri e sbadigliati. Qualcuno è ancora in pigiama, qualche altro fa colazione in camera scusandosi; dai vari microfoni arrivano in casa mia le voci di altrettante quotidianità: fratelli che gridano, mamme che aprono la porta all’improvviso – “Buongiorno, signora”, “Salve, professore, come va?” – rumori non ben chiari. Il quadro è confortante come un raggio di sole, in questi tempi.
Insegno matematica in una scuola superiore, negli indirizzi tecnico e professionale. Non sono mai stato una persona smart; mi definisco piuttosto un lento per scelta, connesso solo quando serve. Per dire: in casa non avevamo il wifi, bensì una vecchia chiavetta comprata otto anni fa che mi permetteva di spedire le mail e poco altro; niente TV a pagamento di nessun tipo e, per guardare un film, nella mia famiglia si andava ancora in Biblioteca a noleggiare il DVD. Non ho mai sognato una vita smart e nemmeno so vivere così; tuttavia, come tanti, è sempre possibile imparare a fare ciò che serve quando serve, nonostante l’umana inerzia da vincere all’inizio del processo.
A me questa cosa della didattica a distanza non andava giù. Preferisco essere onesto. A parte che non avevo in casa l’attrezzatura, visto che anche il mio PC ha tipo 10 anni e non so registrare filmati se non con lo smartphone, ma non lo faccio perché mi fa schifo; poi non avevo una rete veloce per sostenere conferenze con venti alunni, poi avrei dovuto scrivere in diretta e non sapevo come fare, in più per me andare in classe e avere davanti i ragazzi è tutto, mentre a trovarmi in faccia una webcam mi sento solo e triste. Insomma: problemi insormontabili.
Morale, dopo due settimane trascorse nella speranza di tornare a scuola, dove invio agli alunni del materiale da studiare, esercizi da fare di cui mando le correzioni, addirittura delle videolezioni registrate che tuttavia mi costano ore di lavoro e upload, date le mie scarse disponibilità tecniche, arrivo al classico bivio (baratro). O tiro a campare o mi butto e vinco l’inerzia. Intravedo però una grande opportunità: la situazione è “straordinaria” e veniamo sollevati, di fatto, da tutte quelle ansie, formalità e burocrazie varie che io della scuola – perdonatemi – non ho mai amato, come il numero di voti da dare, la valanga di prove scritte da fare, il programma da seguire per essere in pari con gli altri colleghi, l’essere un po’ ingabbiati dentro i muri della tua disciplina. Io amo insegnare e basta. Amo anche imparare dai ragazzi, in un rapporto che, pur non potendo essere per forza di cose alla pari – se no non funzionerebbe – mantiene ampi spazi di condivisione e crescita reciproca, ognuno secondo il proprio ruolo. Odio invece interrogare, dare i voti – ma ne do tanti comunque – dovere arrivare fino alle disequazioni di secondo grado se no poi mi vengono i sensi di colpa, assegnare note disciplinari quando qualcuno esagera, oppure i compiti di punizione, etc. Adoro insegnare non solo matematica o fisica, ma anche proporre, nelle parentesi di una lezione, tutte quelle cose belle che ho incontrato nella mia vita culturale – film, musica, fotografia, letteratura, luoghi conosciuti ed esperienze fatte – perché ritengo che i ragazzi abbiano bisogno prima di tutto di ispirazione e spunti per rendere d’oro il proprio tempo, nella grandiosa scoperta che c’è un mondo ricco di meraviglie che li aspetta proprio lì, dietro l’angolo.
In conclusione, ho scelto di buttarmi e vincere l’uggia di cui sopra per vivere l’esperienza della didattica 2.0 (o 3.0. Non so a che punto siamo arrivati). Aiutato dalle dritte di un collega paziente e smart – lui sì – in pochi giorni mi sono procurato una tavoletta grafica dal sign. Amazon – figata! – e ho fatto installare la rete veloce in casa, grazie alla disponibilità dei tecnici mascherati di una nota compagnia telefonica che hanno fatto il lavoro rapidamente, anche in questi tempi brutti e cattivi. Adesso ho lo scanner, un tot di software, lavoro su un PC più nuovo e veloce, etc.
Ieri (sabato n.d.r.) alle 11 ho finito le lezioni in streaming della settimana. Ci siamo augurati buona domenica, abbiamo riso e scherzato. Tra me e i ragazzi, per forza di cose, si è allentato quel clima un po’ formale che spesso appesantisce l’aria dell’aula e che naturalmente includo tra le cose che odio. Riesco a procedere col programma, fare esercizi e per certi versi seguirli ancora meglio che a scuola, in presenza; sarà che nessuno chiacchiera o disturba (o quando lo fanno spengono il microfono). Mi è sembrata una gran cosa poter dire, per la prima volta: “Non preoccupiamoci più che tanto della valutazione: da adesso l’importante è quello che riuscite ad apprendere. Teniamoci impegnati. Se avete domande, sono qui. Se avete dubbi più estesi, al pomeriggio chiamatemi su skype quando mi vedete disponibile, che ne parliamo”. So che tanti di loro, i più fragili, andavano a lezioni private e ora non sono più seguiti da nessuno. Posso farlo io. Come i miei studenti, anche io sono in casa, isolato, tutto il giorno e ho un sacco di tempo. Capita persino che i più volenterosi, dopo la lezione canonica mi chiedano di “fermarmi” un’altra ora se non ho altri “impegni”, per poter fare esercizi in più.
In questo periodo, andare a scuola così fa bene a me quanto a loro. Le mattine volano in un clima sereno e stacco la mente dalla tragedia che affligge il nostro Paese. Quando la velocità di internet rende possibile cose simili e abbatte i muri tra le persone, ben venga davvero l’essere smart.
Poi c’è la questione dei compiti. Mi sento autorizzato a fare volare la fantasia, a dare agli studenti delle opportunità per staccarli dai social, dai videogiochi, dalle serie TV, per aiutarli a impreziosire quel vuoto nel quale bene o male tutti ci troviamo prima o poi – pandemia o no – e dove non bisogna naufragare. Oltre agli esercizi di matematica, che restano per forza di cose, ma sono molti meno di quelli che do di solito – non dovendo usare le ore per fare trafile di compiti e interrogazioni ho più tempo per fare esercizio insieme – ho iniziato a consigliare film da vedere, brani di musica da ascoltare, immagini da guardare (grandi fotografi, ad esempio), libri da leggere, siti interessanti da consultare…
Immagino un giorno di andare al cinema coi miei figli adolescenti, a vedere uno dei tanti film con cui verrà raccontata la pandemia del 2020. Allora mi sentirò come i nostri nonni, quei vecchi che ci parlavano della guerra e delle privazioni di un tempo, e dirò loro: “Voi non vi ricordate, perché eravate piccoli…”. Penso che in futuro mi sentirò quasi felice di avere vissuto in pienezza questi giorni di primavera rubata, da insegnante 2.0.