Il Salar di Uyuni, in Bolivia: il mondo all’inizio del mondo

Un mare candido, abbacinante. Un orizzonte che si perde nel cielo. Ecco il grande Salar di Uyuni, il lago fossile più grande del mondo che scintilla sotto una corona di montagne azzurre. E noi uomini ci aggiriamo come polvere in tanta bianca indifferenza.
“Perché il lago si è asciugato?”, domando al nostro accompagnatore. Lui, giubbotto rosso, occhiali scuri sempre calati sul naso, è serio come se gli avessi chiesto di spiegarmi un dogma.
«Diecimila anni prima di Cristo», racconta, «qui era una lunga notte. Sempre buio, tranne per la luce della luna. Allora c’era anche il lago, che al freddo riusciva a sopravvivere. Poi la terra si è inclinata ed è arrivato il sole, che piano piano ha fatto evaporare l’acqua».
Sembra una storia plausibile. A me torna invece in mente la favola del lago volato via d’inverno, quando le anatre si sono appoggiate sulla sua superficie. Col gelo il lago si è ghiacciato, rimanendo impigliato alle loro zampe. Poi le anatre che sono volate via, lontano, trascinandosi dietro il lago chissà dove.

Il Salar de Uyuni è un’immensa distesa di sale, a dodici ore di autobus da La Paz.
«Se non ti metti gli occhiali», continua il nostro accompagnatore, «stanotte piangi come un neonato». Lui li toglie e li indossa di nuovo per farmi vedere come si fa. Ha occhi che mi paiono tristi, vorrei parlargli per ore, sapere se conosce altre storie oltre a quelle del Salar, qui dove si perdono il senso del tempo e dell’orientamento. Nel cielo terso mancano due o tre pianeti a galleggiare e la scia verdastra di un’aurora boreale.

Una volta nel Salar c’era un’isola. Adesso è una collinetta coperta di cactus grandi come alberi. Roccia vulcanica e spine. Hanno centinaia di anni. Attorno, nessun rumore: non tira il vento, non ci sono foglie da scompigliare, non passano gli aerei. Ho trovato un simile silenzio solo tra le mura di certi conventi.

«In realtà il lago esiste ancora» dice il nostro amico. E mi sorprende, perché sembra raccontare un segreto. «Solo che non si vede. Sta sotto il sale. È una crosta spessa due metri, ma se scavi trovi tantissima acqua che continua a evaporare lentamente».
«Con anche i pesci?»
«Anche, sì. Tanti li diamo per estinti, ma invece vivono in pace sotto i nostri piedi».

Avevo letto che il sud boliviano è quasi un viaggio all’inizio dei tempi. La vegetazione è scarna o assente, come se non fosse ancora stata creata. Un altrove nel tempo e nello spazio fatto di terra, sale, altitudini estreme e rocce dai colori mai visti. Tanti vulcani. Alcuni attivi, altri spenti e questi ultimi non si contano, sono troppi, con l’erosione che via via li rende simili a semplici montagne. È tutto fermo: un’immobilità che spaventa e ubriaca. Se getti un pezzo di plastica hai la sensazione che resti lì per 20.000 anni.

Poco lontano dal Salar, il tempo riprende a scorrere tra acque e vapori, nell’aria rarefatta del deserto. Laghi che adesso paiono ologrammi: carbonati, zolfo, miscele infernali che ribolliscono tra fenicotteri rosa. E tanta spuma bianca, tra le rocce.

Perché fuori dai confini del Salar il vento riprende vita.

Questa schiuma è proprio un dono del vento gelido che anima l’acqua e la rimescola, montandola a neve come albume d’uovo. Ecco, le cellule forse sono nate così: il miracolo  di una bolla che diventa membrana e separa l’esterno da un cuore pulsante, nella casualità di un abbraccio chimico. Qui, dove l’orologio sembra ripartito da zero, aspettiamo sperando di diventarne testimoni.

Vuoi andarci anche tu?

Non stiamo a tirare in ballo Indiana Jones, ma se siete figàtt da bròd, come diciamo a Modena, ossia fighetti buoni per farci il brodo, lasciate perdere un viaggio nel Salar di Uyuni e zone limitrofe. Più banalmente, se amate un minimo di comodità. A Uyuni, raggiungibile tipicamente in autobus da La Paz, il clima è rigido e non tutti gli alloggi – per lo più molto semplici – hanno il riscaldamento (o comunque un riscaldamento che funzioni in maniera accettabile). Per la visita del grande Salar e delle Lagune bisogna affidarsi a una delle tante agenzie di Uyuni: di solito si sta via tre giorni, viaggiando su grandi fuoristrada, perché ovviamente non esistono strade asfaltate e spesso neanche sterrate. L’arrivo è di nuovo a Uyuni, oppure vi scaricano alla frontiera col Cile, da cui si può procedere per San Pedro de Atacama. Si dorme in rifugi molto spartani, a oltre 4000 metri di quota. Non date per scontato nulla: né l’acqua corrente, un telefono (solo radio per le emergenze), il riscaldamento e ovviamente la luce elettrica. Nel mio caso era cinque sotto zero e mi si è gelato il sedere. Il vostro accompagnatore ha con sé, nel fuoristrada, un fornello da campo e i viveri. Tutto questo non vi spaventi, perché sarete ricompensati da alcuni degli scenari più belli del mondo.

Quando nasce un figlio e si vuole viaggiare

Un coro di parenti disposti su tre file ci aspettava al varco. Perché su un fatto avevamo speso tante parole, e cioè che io e mia moglie avremmo continuato a viaggiare. Coi bambini piccoli? Yes, miei cari. E le nostre madri ghignavano. Mio padre era più possibilista, convinto che a Rimini sud saremmo arrivati anche con la piccola Maya. Casa nostra – Rimini sud fa più o meno un’ora e quaranta. Chiaro: ora che c’era con noi il tesoro dei nonni bisognava partire alle 3 di notte per farle fare il viaggio col fresco, guidare come una suora, fare le pause, andare sempre dritti perché nelle curve c’è la forza centrifuga e Dio liberi dall’aria condizionata, che secca le mucose dei piccini e fa venire la diarrea. Io ho sempre incontrato mamme e papà con neonati al seguito in giro ovunque, e non mi risulta che nessuno sia rimasto traumatizzato. I bambini, intendo. I loro genitori, non so. Tuttavia, dato che da un lato queste famiglie non erano mai italiane, dall’altro non si sa mai, abbiamo deciso di comune accordo di sentire un parere dalla nostra consulente in genitorialità, dottoressa Daniela. Il cognome non lo scrivo neanche morto e il nome è di fantasia.

«Pronto, dottoressa XXX?»
«Sì, sono io. Dica, dica».
«Salve, sono Bellucci»
«Ahhh». Che vorrebbe dire: è qui che ti volevo, mister sotuttoio.
«Mi trovo un po’ in difficoltà».
«Molto bene».
«È che vorremmo fare un viaggio con la nostra bambina che ha due settimane. Sa, per noi viaggiare è vitale».
«Bisogna vedere che cosa è vitale per vostra figlia».
«Ha ragione».
«E dove vorreste andare, che sentiamo? Perché l’aereo va escluso. Il rumore, la promiscuità, la luce costante. Tutti fattori che creano stress. Ma immagino che voi non volevate fare volare la vostra bambina prima che abbia le ali».
«No, ci mancherebbe. Pensavamo all’auto».
«Quanto tempo?»
«Il tempo di arrivare».
«Non tergiversi con me, sa. Le dico subito che l’infante prigioniero di quei cosi che chiamano ovetti vive una condizione di grande ansia. In auto bisogna stare il meno possibile. E vai e vieni. E parti e ti fermi. Tutte sollecitazioni che vanno a cadere sulla colonna vertebrale dell’infante».
Mi metto a ridere perché a me l’infante fa venire in mente l’infanta di Spagna, però giuro che la Daniela XXX parla così.
«Francamente, non so bene quanto è lungo il viaggio. Glielo dico papale. Noi vorremmo vagabondare per l’Europa, così senza meta. Prima verso nord (uso un tono sognante), poi verso est. Parigi. Madrid. Si va dove capita. Un mese. L’oceano. Un famiglia neonata in cammino. Perché non è nata solo Maya: anche io e Giorgia siamo rinati nel nostro nuovo ruolo e dobbiamo capire cosa siamo e che cosa vogliamo, e magari nostra figlia è paziente e ce lo spiega, tra una colica e l’altra».
Resto qualche istante in attesa.
«Dottoressa, è ancora lì?»
Dall’altra parte c’è solo il lamento di una gallina che cerca di fare un uovo più grosso del… Beh, del tunnel da cui escono le uova. Avete capito cosa. E il lamento mi attraversa come le frecce del San Sebastiano.

Allora decisi di chiedere un parere alla Dottoressa Loredana, la pediatra.
[…]
«Quindi si sa quando si parte e non si sa quando si torna e nemmeno dove si va. Che ne pensa, dottoressa?»
«Ma è una cosa meravigliosa!»
«Ci sono controindicazioni?»
«E perché? Dovete solo imparare a entrare in empatia con la bambina, visto che non parla».
Mi segno la parola empatia. Dovrò cercare su internet uno di quei videocorsi.
«Può stare in macchina?»
«Può».
«E le vibrazioni?»
«Le vibrocosa?»
«No, dicevo per dire. È una parola che non esiste».
«L’importante è che non le vengano la tosse o la febbre o l’ittero o…»
«Aspetti, e nel caso?»
«Troverete un medico. L’Europa è piena. State in Europa?»
«Forse. Cioè, sì».
«Che cosa dobbiamo prendere con noi? L’antibiotico? Il cortisone?»
«No».
«Suvvia, sia buona. Mi prescriva qualcosa».
«Non si può».
«Devo comprare una di quelle torce per guardare in bocca alla bambina e capire se ha la gola rossa?»
«Ci vuole un medico».
«Non devo portare con me neanche la macchinetta dell’aerosol? Guardi che ci so fare coi medicinali. Ho girato mezzo mondo e mi porto sempre dietro tutto. Anche le punture. Una volta mia moglie aveva la gastroenterite, io le davo il Plasil in pastiglie e lei lo vomitava ed eravamo a 4000 metri in Bolivia. Un bel casino, ma io no. Ah, ah. Ce l’avevo anche in punture. Ok, la dottoressa me l’aveva prescritto solo in pastiglie, ma è bastata la scena madre col farmacista e trak, fialettina. Sa che non avevo mai fatto una puntura? Pensi che mia moglie ha preso un pennarello e si è disegnata un bersaglio su una chiappa per indicarmi la posizione».
Silenzio dall’altra parte. Forse ho calcato la mano, ma l’aneddoto mi sembrava carino.
«Guardi, non posso prescriverle nulla. Paradossalmente coi neonati è molto semplice, visto che voi non potete dar loro nulla, a parte la soluzione fisiologica. Quindi è impossibile sbagliare. Per ogni dubbio, andate dal medico. Dal pediatra, cioè».
«E la lozione fisiologica gliela do da bere o gliela passo sulla pelle col cotone?»
Silenzio dall’altra parte. Chissà che cosa ho detto di così sconvolgente. Siccome non si sa mai, mi accerto sul web che la fisiologica per neonati non sia in supposte, diversamente sai te che figura.

Così mia moglie decide di chiedere un parere al prete in confessione.

«Figlia mia, ti ricordo che bisogna che vi sposiate».
«Ha ragione».
«Non è bene che vi chiamiate marito e moglie e portiate la fede al dito senza esservi sposati. È una specie di truffa».
Mia moglie pensa che Dio sa che non siamo sposati, quindi che truffa è mai?
«Ci sposiamo, sì, certo. Ecco, pensi che volevamo andare a Lourdes».
«È una bella cosa, figlia mia».
«Con la bambina».
«Molto bene, bravi».
«Certo, non in aereo, che forse è un po’ presto. In auto. Dice che faremmo bene?»
«Molto bene. Ma dimmi, col tuo ragazzo come va, adesso che sei madre?»
«In che senso?»
«Vedi, figlia mia, ore che avete una bambina le cose si complicano e bisogna non perdere le buone abitudini. Ricorda che prima viene il marito – e dirò marito, dato che vi sposate – poi i figli. Perché se i figli piangono, prima o poi smettono, ma il marito non va trascurato: se piange lui, allora sono dolori. Tu sei madre, ma prima di tutto donna. Hai capito?»
«Sì».
«Ti è chiaro, vero, a che cosa mi riferisco?»
«Molto».
«Dai sempre tutte le attenzioni a tuo marito. Cioè, al tuo compagno, perché ancora non siete sposati. Lo so che alla sera la stanchezza può essere tanta».
«Anche i punti dopo il parto».
«Eh, ma i punti cadono, mentre ci sono donne che si dimenticano dei loro mariti».
«Quindi facciamo bene a viaggiare?»
«Ma certo, sì, tutto quello che volete».

Così, quella sera di luglio, appena diventati genitori, tracciamo un itinerario sulla carta d’Europa, stimando i tempi di percorrenza e raddoppiandoli perché adesso c’è la nostra Maya. Lei ci guarda tranquilla distesa tra due cuscini e ogni tanto sorride così, senza senso. Mi hanno detto che imparano a ridere dopo il secondo, terzo mese. A me non dispiace che sorrida come fosse un riflesso che si porta dentro, come qualcuno che sogna a occhi aperti. Provo a farlo anch’io davanti allo specchio, ma sembro qualcosa di simile a un cow boy che entra in un saloon abbandonato.

“Finché c’è qualcuno da amare” di Susanna Bo (San Paolo Edizioni)

Copertina Susanna Bo

La vita continua, la vita riprende, la vita si rinnova finché (o soltanto se) c’è qualcuno da amare. Un storia vera che, a partire da questo spunto, racconta di un ritorno alla luce dopo il buio. Sara, alter ego dell’autrice che inventa nomi nuovi per evitare l’imbarazzo di una narrazione in prima persona, vede morire il proprio marito e rimane sola con le figlie piccole, Sofia e Beatrice. Annichilita, aggrappata al passato, trascorre un’esistenza sospesa in quel limbo in cui il dolore è un’aria che offusca il futuro e si posa sulle cose come polvere. Ma in questo libro Susanna Bo non tratta direttamente i temi della morte e del distacco: l’ha già fatto nel suo precedente romanzo, “La buona battaglia” (San Paolo, 2016), che ho letto e amato e che invito tutti a prendere tra le mani, credenti e non. Perché c’è proprio bisogno di voci come queste, intimamente rivoluzionarie, che osano parlare di fede come di una dimensione capace di trasfigurare la quotidianità e soprattutto la sofferenza, sollevandola dal non-senso al tepore della speranza. Ora però è tempo di tornare a casa, e in “Finché c’è qualcuno da amare” l’occasione della rinascita, come spesso accade in ogni esistenza, è poco lontano da te. Ecco allora che i destini di Davide e Sara, i due protagonisti, finalmente si incrociano, si cercano, scivolando tra coincidenze che paiono conferme, fino a riconoscersi. Dunque solo una storia d’amore dopo una prima relazione finita tragicamente? No. A parte la penna delicata e, diciamolo pure, divertente, di Susanna, in questo libro stupore e grazia sono l’intelaiatura su cui si innestano le vicende. La sostanza è dunque altrove, in una dimensione di meraviglia che scorre accanto alla nostra e che illumina i passi di Sara e Davide, insieme a quelli di tutti noi. Al contempo, il racconto è una porta spalancata sull’intimità dei due protagonisti: le pagine scorrono leggere, si  ride e alla fine ti affezioni. Devo dire che non capita così spesso, leggendo un libro, di sentirsi accolti come fosse un’amica che parla di sé. Tanto che, arrivati all’ultima pagina,  viene voglia di conoscerla davvero questa Susanna Bo, la “vedova più allegra del Tigullio”, anche solo per ringraziarla di averci raccontato, con dolcezza e senza alcuna retorica, la verità più semplice e antica del mondo: veniamo dall’amore e solo di questo ci nutriamo. Dunque amare è per non morire di fame.