Il borgo fantasma di Monterano

In provincia di Roma, un’antica città perduta continua a richiamare, col suo fascino, escursionisti e romantici sognatori

Ecco uno di quei luoghi che si imprimono nella memoria per il loro fascino e l’atmosfera che li avvolge. Parlo di uno dei borghi fantasma più belli che abbia mai visto, in effetti un po’ difficile da raggiungere proprio come deve essere, ma nulla di drammatico se non ci tenete troppo alle sospensioni e alle gomme della vostra auto. Io, tra l’altro, avevo con me i miei due bambini che si sono divertiti molto.

Siamo nel cuore di una riserva naturale in provincia di Roma, al confine con quella di Viterbo. Il lago di Bracciano è poco lontano. In una spianata in mezzo alla boscaglia riposa da oltre duecento anni il borgo di Monterano, abbandonato nel 1799 dopo un saccheggio da parte delle truppe francesi. Quando gli abitanti se ne andarono, Monterano doveva essere un bel posto da un punto di vista architettonico. Oggi il colpo d’occhio sulle rovine della chiesa di San Bonaventura, del convento annesso e della fontana ottagonale che dominava la piazza è commovente, soprattutto per il senso di lontananza da ogni cosa, il verde degli alberi che vestono le colline in ogni direzione, il silenzio disturbato solo dal canto folle delle cicale. Il complesso di San Bonaventura, nella cui navata troneggia un gigantesco albero, venne costruito tra il 1677 ed il 1679 e affidato agli Agostiniani Scalzi, quindi agli eremiti servi di Maria di Monte Senario. Esiste un dipinto, nel palazzo Altieri di Oriolo Romano, in cui la chiesa è rappresentata, così possiamo sapere che aspetto avesse ai tempi. Leggenda vuole che nel prato davanti alla chiesa ogni tanto capiti di vedere un cavallo selvaggio, lì a vagabondare mestamente all’ombra delle rovine.

Non lontano da San Bonaventura si ergono le vestigia del palazzo ducale o castello Orsini-Altieri, in parte avvolte dai rovi che gli conferiscono un’aria assai romantica. Sulla facciata del palazzo venne realizzata, nella seconda metà del ‘600, una fontana, opera di Gian Lorenzo Bernini, in cui spicca la statua di un leone ancora oggi visibile che percuote la roccia con la zampa facendo zampillare l’acqua. Accanto ai grandiosi ruderi del maniero si notano un campanile – tutto ciò che rimane della cattedrale di Santa Maria Assunta, fondata nel XII secolo – e i resti di una terza chiesa, San Rocco, di cui sopravvivono l’abside e l’altare.

Sono impressionanti i resti dell’acquedotto, la prima cosa che vedrete del borgo una volta arrivati. Recentemente restaurato, attraversava le colline grazie a un canale sotterraneo che sbucava in superficie nel tratto finale, alle porte del centro abitato, superando la piccola valle ai piedi del castello con una imponente struttura a doppie arcate. Vicino c’è una terza fontana che sembra abbia funzionato fino a poco tempo fa, stando alle testimonianze di alcuni escursionisti delusi, incontrati proprio lì davanti con le borracce vuote in mano.

Grazie al suo fascino, Monterano ha fatto da set naturale a decine di film a partire dagli anni ’50, tra cui ricordiamo “Il marchese del Grillo” e “Ben-Hur”. Il borgo fantasma può essere raggiunto a piedi con una breve passeggiata, dopo aver percorso però diversi chilometri lungo una strada sterrata stretta e costellata di grosse buche, che immagino si trasformi in un torrente nei giorni di pioggia. Si possono raggiungere, in zona, anche una zolfatara e le cascate della Diosilla. Durante l’escursione vi sentirete letteralmente nel nulla, soprattutto nei giorni infrasettimanali, e le persone più suggestionabili potrebbero avere un po’ di timore. Non importa: indossate scarpe comode, prendete con voi acqua e cibo e non ve ne pentirete.

Il borgo dipinto di Dozza (Bologna)

Grazie alla Biennale del Muro Dipinto, questa deliziosa località nel Bolognese è diventata una galleria d’arte a cielo aperto

La prima notizia documentata del nome di questo borgo medievale, dalla forma che ricorda la carena di una barca, è del 1126. Dozza deriverebbe da “doccia”, riferito alla presenza nel luogo di un condotto per convogliare l’acqua in una cisterna per la popolazione. Oggi Dozza si mostra intatta nella sua veste medievale, con la massiccia Rocca Sforzesca, le stradine selciate, il Rivellino di accesso all’abitato e la chiesa di Santa Maria Assunta. Attorno, l’abbraccio delle prime colline che cingono la via Emilia, fra Bologna e Imola, coperte di vigneti.

Tutta questa zona, una sorta di baricentro tra Emilia e Romagna, ha un’antica e illustre tradizione vitivinicola. Dozza è infatti anche detta Città del Vino, nonché sede dell’Enoteca Regionale dell’Emilia Romagna, che coinvolge oltre 200 produttori di vino, aceto balsamico e distillati. La visita all’Enoteca per assaggiare un buon calice di Albana, Lambrusco, Sangiovese o Malvasia vale il viaggio. Proprio l’Albana è stato il primo, tra i bianchi italiani, ad avere ottenuto la Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG) nel 1987.

Il borgo di Dozza è reso unico dai numerosi dipinti sui muri delle case, che illuminano nel segno della bellezza il paesaggio urbano e regalano suggestioni improvvise. Una vera galleria d’arte contemporanea a cielo aperto, senza orari d’apertura né biglietto d’ingresso, dove ci perde lungo le ali della fantasia. I dipinti sono il lascito della Biennale del Muro Dipinto, una manifestazione nata negli anni sessanta che vede protagonisti artisti di tutto il mondo, le cui opere rimangono poi a patrimonio del borgo. Il risultato è un medioevo colorato proprio come nelle fiabe, dove creature malinconiche ti fissano da un’architrave e le nubi corrono lungo le pareti delle case, lontane, verso l’orizzonte fioco della grande pianura Padana.

DSC_1023

Cosa mangiare e dove mangiarlo

Qui sono ottimi tutti i salumi. Anche se siamo in Romagna da pochi km, troverete chi ve li serve con una piada romagnola preparata come Dio comanda. Da assaggiare i primi piatti con la sfoglia tirata a mano: tagliatelle al ragù di carne alla bolognese (un’istituzione), maccheroni al pettine e tortelli con ricotta e spinaci conditi con burro fuso aromatizzato alla salvia, non senza un’abbondante spolverata di Parmigiano Reggiano. Per assaggiare la cucina tipica del territorio potete andare, ad esempio, alla Piccola Osteria del Borgo o al ristorante La Scuderia.

Camminando verso l’antica Abbazia di Monteveglio – Bologna

Un pellegrinaggio silenzioso, immersi nella bellezza della primavera, portando idealmente le preghiere di tutti

Partiamo. Stavolta siamo in due: io e mia moglie. Considerando la strada che abbiamo scelto, fuori mano, tutta su e giù per le colline tra Modena e Bologna, ci aspettano quasi 20 km. Con due tappe intermedie: il borgo di Savignano sul Panaro, grazioso nella sua parte nuova per diventare notevole quando si guarda al nucleo medievale, e il pressoché sconosciuto Montebudello (curioso come nome, vero?).

L’Abbazia di Monteveglio, sui colli bolognesi, è un gioiello romanico dedicato a Santa Maria Assunta. Venne eretta su volere di Matilde di Canossa. Il luogo è un nido per l’anima, soprattutto durante la settimana e nei mesi invernali, dove non c’è mai nessuno e sembra di fare quattro passi in un’altra vita. Dovete venire a conoscerla, se passate nei dintorni. Come nel tipico scenario italiano che illumina le tele di tanti dipinti, immaginate la classica altura coronata da prati verdi, cipressi e querce. Sulla cima, un borgo dove vivono pochi eletti, con un torrione all’ingresso. L’unica strada acciottolata arriva direttamente all’Abbazia tra due ali di case, alcune disabitate, e un Oratorio circondato dalle rose. Trovate anche un’osteria, dove dicono si mangi molto bene.

Annesso all’Abbazia c’è un convento francescano. Una volta mi è capitato, per qualche festa che non ricordo, di vedere i frati all’esterno, in formazione rock, pronti a cantare: chitarra al collo, batteria, microfoni. Purtroppo me ne sono dovuto andare prima dell’inizio e ho mancato il repertorio. Appena si entra in chiesa, lo sguardo scivola a destra, verso la bella cripta, con un fonte battesimale ricavato da un’unica pietra, quindi al grande crocefisso, dove Gesù pare sempre soffrire in pace, dormendo. E spesso ci fermiamo lì, alla dolcezza di un uomo che dorme, il capo reclinato, senza risposte né redenzione, quando i discepoli scappano via. Più lontano, sulla parete, un campanello e un bigliettino: “Chi suona per confessarsi non di disturba mai”. Perché in effetti – altro nodo scorsoio – tutti abbiamo paura di disturbare, creare imbarazzo, affidarci.

Anche stavolta ho scritto sui social che avrei camminato. Anche stavolta arrivano messaggi e richieste di preghiere. Sorrido, leggendo spesso: “Se sono ancora in tempo, ti chiederei…” In effetti il tempo è un altro nodo universale. Una di quelle ricchezze che non ci appartengono e vanno bene amministrate. Possiamo riguadagnare i soldi spesi, diventare molto ricchi o piombare nella miseria grigia, mentre non è possibile guadagnare tempo, né accumularlo per avere gli interessi. Renderlo d’oro, invece, sì. E questo è tutto.

Mentre camminiamo la mente si libera, a mano a mano che sale una stanchezza buona. Tutta la bellezza attorno è di grande aiuto. Non avrei mai pensato che dietro casa mia ci fossero tante querce e lapidi che raccontano storie. Come quella di un uomo che, nel 1912, venne accecato da “ignota mano assassina” mentre tornava a casa. La sua vicenda è coperta dai rovi, col granito striato dalle bave di lumaca. Direi che è tutto ciò che resta di lui. Allora diciamo una preghiera per quelli che ci scrivono e il cuore subito si alleggerisce. Risuonano più intense, dentro, le grida degli uccelli. Uno dei folli miracoli è questo: condividere, anche solo idealmente, la pena di un altro alleggerisce l’anima.

Quando arriviamo a Montebudello mi accorgo che è Pentecoste. Ci sarebbe la Messa tra venti minuti, ma è tardi, dobbiamo proprio andare. E poi, diciamo la verità, non ho voglia di aspettare su una panca: sto così bene a camminare e mi annoierei per il (santo) fuori programma. Un uomo si accorge di noi e ci chiama. Chiede se vogliamo visitare il campanile e magari vedere suonare le campane, perché si dà il caso che lui sia proprio il campanaro. Mi diverte questo diversivo piovuto dal cielo per far sì che non ce ne andassimo. Allora lo seguiamo: saliamo sulla torre, ci mostra le campane, racconta con passione una storia bellissima. Fuori il panorama spazia sino a Modena, su cui si addensano nubi bianche. Di notte è un mare di luci che fa innamorare. Quando scendiamo, la Messa sta iniziando e dunque non abbiamo scusanti.

Primavera 2018 - Colline Monteveglio - Studio 3 - DSC 8165

È da un po’ che mi chiedo se sia possibile, su strade secondarie, andare dall’Abbazia di Monteveglio fino al celebre santuario della Madonna di San Luca, che veglia sopra Bologna dal Monte della Guardia. Ci ho guardato distrattamente, ma non ho trovato nulla. Sarebbe un modo per andare avanti a camminare sui colli. Il piccolo tarlo mi accompagna tra un passo e l’altro. E ancora, ripenso a una testimonianza preziosa, conosciuta solo qualche giorno fa. Parlo della storia di David Buggi. Non ve la voglio anticipare, ma davvero, se volete rendere preziosi undici minuti di quel tempo che non ci appartiene, guardate questo video.

Arrivati a Monteveglio, comincia la salita. C’è un sentiero che si inerpica sulla collina, regalando di nuovo un bel colpo d’occhio su calanchi fioriti e montagne. Il sentiero ricalca la strada vecchia, l’unica a salire al borgo prima degli anni ’40, quando venne realizzata una via asfaltata. A un certo punto, ecco una cappella. Io che di solito arrivo in auto appunto con la via asfaltata, è la prima volta che la vedo. Una cappella dedicata, guarda caso, alla Madonna di San Luca. Ripenso alla possibilità di allungare il pellegrinaggio, un giorno, con più tempo a disposizione. Ma come ho detto, non conosco stradine secondarie e poi forse vorrei cambiare zona e poi… Intanto mi tornano in testa le parole di David, che chi vorrà potrà ascoltare nel video di cui sopra, quando dice: “[C’è a portata di tutti] una felicità che dura, che non viene meno. Basta non remare contro”.

Siamo arrivati alla chiesa verso le due del pomeriggio, stanchi e sereni. I messaggi continuano a piovere su Facebook. “Se sono ancora in tempo…”. Una vecchia amica mi dice: “L’altra volta che ti ho visto camminare non ne ho avuto il coraggio, ma stavolta devo chiederti di pregare per…”

Così entro nell’Abbazia. Davanti a me – proprio me lo sento sbattuto in faccia – un cartello. Dice: “Pellegrinaggio a piedi dall’Abbazia di Monteveglio al Santuario di San Luca, Bologna”. Con tutte le tappe, una ad una. Quelle che cercavo. Le risposte alle domande, a un desiderio buono che mi era stato suggerito. Se non è questo un segno!

Però poi mi merito di raccontarvi quel che spesso accade nelle nostre vite. Come direbbe David, i desideri buoni ci vengono suggeriti, ma noi siamo molto scaltri a remare contro. Per inerzia, forse. Quel pellegrinaggio si sarebbe tenuto oggi. Sarei partito col gruppo alle 7 del mattino e rientrato la sera. Avrei trascorso una bella settimana al pensiero di farlo, invece della settimana neruccia che mi è toccata in eredità (piccole sciocchezze come per tutti, ma un po’ la stanchezza, un po’ lo sconforto, un po’ il cattivo umore hanno reso i giorni trascorsi alquanto sfigati). Solo, quel programma non l’avevo deciso io e mi sarei dovuto adattare a tempi e modi altrui. E poi metti che coi figli si fosse pensato a una giornata al mare, o in montagna, o a Parigi; metti che poi piove; metti che mi venga la sciatica, la borsite rotulea, l’ernia fulminante. Metti che…

Invece sto in ottima salute e alla fine non siamo andati a Parigi né a Roma, così su due piedi (Sally docet). Anzi, non ho fatto nulla di questo tempo, a parte la cosa buona – spero – di buttar le parole che state leggendo. Insomma, era la giornata ideale per continuare il cammino nei modi che mi erano stati suggeriti, senza troppe domande a riguardo.

C’è che il prezzo da pagare per farsi del bene è irrisorio, in fin dei conti, nonostante si tratti, ahimé il più delle volte, di quel che ti costa dare, come diceva Madre Teresa di Calcutta. Ad esempio un’inversione di marcia. Una sosta ai box. Un pugno di scuse a un tizio che non sopporti. Non voglio che diate del vostro superfluo, ma di ciò che vi costa, spiegava la Santa.

In altri termini, quel minuscolo sì gettato nel nulla per rispondere a un segno, dove i nostri occhi non vedono che nebbia e magari imbarazzo, vergogna, follia. Ogni vero viaggio inizia così. Se no, forse, è solo turismo dell’anima.

Le Terre di Canossa: un tuffo nel medioevo tra le splendide colline reggiane

Castelli, torri d’avvistamento, suggestivi ruderi e tutta la bellezza della primavera nelle terre che furono della Grancontessa Matilde

Si dice ancora “Andare a Canossa”, in riferimento a qualcuno che è costretto a umiliarsi, a fare atto di sottomissione. L’espressione deriva da un fatto storico avvenuto proprio a Canossa, sull’Appennino reggiano, nell’inverno del 1077, quando l’imperatore Enrico IV dovette pazientemente aspettare per tre giorni fuori dall’uscio del castello, prima di essere accolto e perdonato da papa Gregorio VII, grazie alla benevola – e interessata – intercessione della Grancontessa Matilde di Canossa. Quando ho raccontato il fatto alla mia bimba di sei anni, proprio mentre andavamo a Canossa (non a umiliarci, ma a visitarla), ha commentato: «Cavolo, papà, ma allora facevano le cose proprio sul serio: aspettare così tanto senza mangiare, bere, parlare, dormire, fare la pipì… Chissà che cosa gli avevano promesso». E pensate che il detto si usa anche in altre lingue: dall’inglese (go to Canossa) al tedesco all’ebraico.

Arrivare a Canossa è facile da tutta Italia, visto che c’è una comoda uscita sull’autostrada A1 (Terre di Canossa – Campegine). Da qui la strada attraversa un piacevole scenario collinare che si fa un po’ più impervio avvicinandosi alla destinazione. In alcuni tratti la vegetazione si dirada, come fossimo in alta montagna, anche se ciò è dovuto solo alla natura del terreno argilloso. Siamo in zona di calanchi, quelle cicatrici argentate che si aprono lungo i primi rilievi emiliani, a testimoniare la presenza di un antico mare. Non è raro trovare conchiglie fossili. Proprio in primavera il paesaggio calanchico è particolarmente suggestivo, perché la natura sterile della terra, che ha un aspetto sabbioso e lunare, contrasta con la forza della primavera. Ogni angolo è un tripudio di fiori – colza, ginestre e margherite – abbarbicati lungo le colate di argilla color cenere. Quando eravamo piccoli, questo mondo sofferto e franoso era per noi teatro di avventure. Non mancava nulla: il fango, le discese ardite (e le risalite…), i fossili, il senso di trovarsi lontano da casa.

Mentre il Castello che fu della Grancontessa Matilde è assai malridotto (sic transit gloria mundi…), rimane sostanzialmente intatto quello, vicinissimo, di Rossena, che consiglio caldamente di visitare soprattutto se avete bambini al seguito. Il castello sorge su una rupe vulcanica dal colore rossiccio, proprio di fronte a una torre di avvistamento, la quadrangolare Torre di Rossenella. L’austera Rocca si sviluppa su tre livelli, con una cisterna ora vuota, il refettorio, la sala d’Armi e la classica umida prigione da cui la fuga era un’utopia. Dai camminamenti si gode un bellissimo panorama sul sottostante borgo di Rossena, sulle rovine del castello di Canossa e poi via via fino alle cime più alte dell’Appennino reggiano, attualmente ancora innevate.

Al castello si può accedere solo con visita guidata. Chi come me preferisce la libertà, subito potrebbe storcere il naso, ma vi assicurò che dovrà ricredersi. La visita è infatti curata dai bravissimi volontari di un’associazione locale: tutta gente del posto innamorata del “proprio” castello, che vi delizierà con aneddoti e storie, anche di fantasmi, perfette per incorniciare con un’aria fiabesca questa finestra aperta sul medioevo.

Info per la visita qui.

La Rocca di Sassocorvaro: l’arca dell’arte

Durante la seconda guerra mondiale, migliaia di capolavori vennero nascosti qui per proteggerli da danni e razzie. Una storia di coraggio e dedizione che non va dimenticata.

Il borgo di Sassocorvaro è poco noto, nonostante sia antico, idilliaco e pieno di scorci suggestivi come tanti villaggi italiani. Siamo nelle Marche, in provincia di Pesaro e Urbino. Gli scenari di qui, fatti di montagne selvagge, gole, roccia, ma anche colline coperte di fiori, campi, ulivi e poi giù, fino all’Adriatico che spumeggia sulle spiagge sabbiose, è un compendio dell’anima variegata e ricca di contrasti del nostro Bel Paese. Ritroviamo questi paesaggi nelle pale d’altare bordate d’oro, e ancora a far da cornice ai ritratti rinascimentali, perché le terre di Urbino e del Montefeltro hanno dato i natali al meglio della visione creativa.

Sassocorvaro sorge accanto al lago di Mercatale, un invaso artificiale realizzato negli anni ’50. Diciamo subito che gli innamorati dovrebbero venirci in gita almeno una volta: a Sassocorvaro, infatti, sono custodite le reliquie di San Valentino martire, la cui “autenticità” è addirittura sancita da un certificato notarile del ‘700. Quello che non si direbbe mai, tuttavia, è che in questo luogo, per un breve periodo, si sia concentrato il più importante patrimonio artistico mondiale.

Ieri era il 25 aprile. Abbiamo festeggiato la Liberazione e con essa la fine della seconda guerra mondiale, uno dei periodi più bui della nostra storia. Quando visitai la celebre cattedrale di Chartres, in Francia, e ammirai le più belle vetrate istoriate che forse esistono al mondo, rimasi ammirato dal fatto che fossero ancora lì, integre, davanti ai nostri occhi, nonostante tutte le guerre che avevano martoriato l’Europa. Proprio all’inizio del secondo conflitto mondiale, le vetrate vennero smontate una a una, imballate e protette in un luogo sicuro. Cosa che accadde a tanti capolavori di casa nostra.

Una fetta considerevole del patrimonio artistico italiano venne portata a Sassocorvaro e nascosta nella sua Rocca ubaldinesca. La segretissima e avventurosa operazione di salvataggio venne condotta da un team di studiosi e storici dell’arte, guidati dal professor Pasquale Rotondi. Egli stesso definì il patrimonio celato a Sassocorvaro come “il raggruppamento di opere d’arte più importante mai realizzato al mondo”: oltre 10.000 capolavori provenienti da tante città italiane, tra cui opere di Raffaello, Piero della Francesca, Mantegna, Tiziano, Caravaggio, Giorgione e il Tesoro della Basilica di San Marco a Venezia.

Da allora la fortezza di Sassocorvaro, massiccia e severa, è anche detta “Arca dell’arte”. Venne scelta perché era lontana da centri industriali o comunque obiettivi di interesse militare, aveva ampi spazi asciutti dove stivare le opere e allo stesso tempo mura così robuste da essere considerate capaci di resistere a un bombardamento aereo.

Il professor Rotondi è morto nel 1991. Per il suo operato gli venne conferita la medaglia d’oro al valor civile. Nella motivazione si legge: “[che] egli operò attivamente, reperendo ed allestendo ricoveri sicuri per considerevole parte del patrimonio artistico italiano posto in grave pericolo dalle barbarie del secondo conflitto mondiale, esponendo in tal modo la propria persona a gravi rischi di ritorsione da parte degli occupanti nazi-fascisti. Fulgido esempio di elette virtù civiche e di coerente testimonianza in difesa dell’arte e della cultura del Paese”.

Visitando le silenziose stanze della Fortezza di Sassocorvaro, ricordiamo allora anche gli uomini come il professor Rotondi, che hanno combattuto nell’ombra, lontano dai campi di battaglia, per salvare la nostra storia dal naufragio. Come scrive Jonathan Safran Foer, ogni cosa è illuminata dalla luce del proprio passato. Quella luce brilla ancora sulle nostre vite, nelle opere sopravissute dei Maestri dell’umanità.

Foto: Il conte di Luna – Flickr, CC BY-SA 2.0, via wikipedia.it

Testo di Devis Bellucci.

La fortezza di Torrechiara, uno dei castelli più scenografici d’Italia

Location cinematografica d’eccellenza, scrigno di opere d’arte e leggende, perfetta per un weekend sulle colline parmensi

A neanche 20 km da Parma, sulle colline di Langhirano, la fortezza di Torrechiara sorge altiera et felice in posizione dominante sul fiume, a due passi dalle montagne. Venne costruita sulle rovine di un più antico fortilizio, tra il 1448 e il 1460, dal Magnifico Pier Maria Rossi, condottiere e conte di San Secondo. È considerato uno degli esempi più importanti e meglio conservati dell’architettura castellare in Italia, nonché monumento nazionale.

Il castello regala un colpo d’occhio molto scenografico in ogni stagione dell’anno, ma a noi piace soprattutto d’estate, quando i papaveri fioccano qua e là tra i campi e la mole severa del maniero si staglia nel cielo azzurro, e durante i mesi più freddi. Allora le nebbie scendono a inghiottire la valle, il silenzio ha un’aria spettrale e Torrechiara pare tornare indietro nel tempo, verso un medioevo fatto di scorribande, streghe e lupi ululanti (in realtà i lupi ululano in abbondanza anche oggi sull’Appennino Tosco-Emiliano, ma di questo vi racconto un’altra volta).

Nel cuore del castello, tra sale riccamente affrescate, spicca la splendida Camera d’Oro, opera del pittore Benedetto Bembo, che celebra l’amore tra Pier Maria e l’amante Bianca Pellegrini di Arluno, detta Blanchina. Pare che il conte abbia fatto edificare la fortezza non solo per tenere sotto controllo la valle, ma anche per avere una dimora elegante (e appartata) in cui incontrare l’adorata amante. Insomma, unì l’utile al dilettevole.

Pier Maria e Bianca sono sepolti nell’oratorio palatino di San Nicodemo del castello. Leggenda vuole che il fantasma di lui si aggiri nel maniero durante le notti di plenilunio, cercando disperatamente la sua amata e ripetendo il motto “Nunc et semper”. Altri parlano dello spettro di una duchessa murata viva nel castello, ma le testimonianze sono discordanti.

La fortezza di Torrechiara è apparsa in diverse serie televisive, videoclip musicali e anche in una puntata di “Ulisse, il piacere della scoperta” dedicata ai Castelli nel Tempo. Gli appassionati di cinema la riconosceranno nel film Ladyhawke (1985), diretto da Richard Donner e interpretato, tra gli altri, da Michelle Pfeiffer.

Già che siete venuti fino a qui, riflettete sul fatto di trovarvi a Langhirano, patria del culatello. Non andatevene senza un buon pranzo in un’osteria!

Dove, come, quando: Via Castello 1, 43010 Torrechiara, Langhirano (Parma). Tel. 0521 355255 e-mail: iat@comune.langhirano.pr.it web: http://www.portaletorrechiara.it. Aperto da novembre a febbraio: mar-ven 9.00-16.30; sabato, domenica e festivi 10.00-17.00; da marzo a ottobre: martedì, domenica e festivi 10.30-19.30; gli altri giorni 8.30-19.30. Chiuso il lunedì. Ingresso: dai 18 ai 24 anni, 2 Euro; dai 25 anni, 4 Euro.

Immagine di copertina: Massimo Telò  – CC BY-SA 3.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0) – per Wikipedia Commons

Grazzano Visconti, Piacenza: un fiabesco villaggio neo-medievale

Si vi emozionano le rievocazioni storiche, venite a visitare Grazzano Visconti, nel comune di Vigolzone, in provincia di Piacenza. L’illusione medioevale che questo scenografico borgo riesce a regalare vale il viaggio: muri merlati, finestre a sesto acuto, fontane, colonnine, statue, persino una chiesetta… Tutto come se fossimo nell’anno mille. Come se, tuttavia, perché nonostante la località paia uscita da La spada nella roccia, gli edifici hanno a malapena un secolo di vita.

È stato infatti all’inizio del ‘900 che il duca Giuseppe Visconti di Modrone, “uomo coltissimo di gusti raffinati e di idee ben chiare”, decise di restaurare le cadenti case coloniche attorno alle rovine del castello di Grazzano, risalente alla fine del 1300, costruendo ex novo un villaggio neo-medioevale. Oggi il borgo, insieme al castello e al parco che lo circonda, è visitato da più di 300.000 persone all’anno, desiderose di fare quattro passi in un mondo fiabesco.

Come ogni luogo incantato che si rispetti, Grazzano avrebbe anche il suo buon fantasma. Si tratterebbe di Aloisa, data in sposa a un capitano di milizia con poco senso dell’onore e morta di crepacuore quando lui la tradì. Da allora il suo spirito inconsolabile vaga tra le mura del castello. Pare che si sia manifestata allo stesso Giuseppe Visconti che ne tracciò un ritratto, grazie al quale sono state realizzate alcune statue poi collocate nel borgo. Per la gente del posto l’inconsolabile Aloisa è diventata la protettrice degli innamorati.

Dove, come, quando

Località: Comune di Vigolzone, a 12 km da Piacenza. La visita al borgo è libera.
Informazioni e prenotazioni visite guidate nel Parco:
Viale del Castello, 2 – 29020 Grazzano Visconti (PC)
Tel. + 39 0523 870136 Cell + 39 366 4543511

Immagine di copertina: GFDL via wikipedia.com

La spada nella roccia? È in Toscana, a Chiusdino

Soltanto un prodigio poté salvar / il regno da guerre e distruzion: / fu una spada nella roccia, che un bel dì / laggiù, comparì. Qualcuno ricorda i versi di questa canzoncina? Sono tratti dal prologo de “La spada nella roccia”, uno dei classici della Disney, che racconta l’ingarbugliato quanto comico percorso seguito da un bambinetto, Semola, per diventare nientemeno che re d’Inghilterra. E che re! Parliamo del mitico Artù, quello della Tavola Rotonda, di Lancillotto e Ginevra. Una storia portata sugli schermi da un altrettanto celebre film, “Il primo cavaliere”, interpretato da Sean Connery e Richard Gere (quello bello, nei panni di Lancillotto). La leggenda è nota a tutti: in un tenebroso medioevo il sovrano di turno è venuto a mancare senza lasciare eredi, ma in cambio è comparsa una spada infilata in una pietra, con allegate le istruzioni. Chiunque estrarrà questa spada da questa roccia e da questo incudine sarà di diritto re d’Inghilterra.

Vorreste cimentarvi nell’impresa, soffiando il posto al futuro re (Carlo)? Impossibile per due motivi: primo, che la spada nella roccia non si trova in Inghilterra bensì – rullo di tamburi – in Italia; secondo, perché è protetta da una teca proprio per evitare – è capitato – che qualcuno privo delle dovute virtù cerchi di estrarla, magari forzando fino a romperla.

Per ammirare il misterioso gladio dobbiamo inoltrarci nelle campagne toscane, in uno dei luoghi che ritengo tra i più suggestivi del nostro Paese. Ci troviamo a Chiusdino, a trenta km da Siena, nella Val di Merse, ricca di borghi medievali e antiche pievi circondate dagli ulivi. Qui riposano i ruderi dell’Abbazia di San Galgano, senza più tetto né campanile, regalando uno scenario simile a quelli è possibile incontrare in Irlanda o appunto in Inghilterra. All’interno si cammina su un soffice manto erboso, ammirando i costoloni che salgono direttamente al cielo. Proprio accanto all’abbazia c’è una piccola chiesetta, la Rotonda di Montesiepi, che di suo passerebbe inosservata al cospetto della grandiosa vicina, non fosse per il tesoro che custodisce. La spada nella roccia è qui, al centro della Cappella, venerata come una reliquia. Apparterrebbe a San Galgano, un cavaliere vissuto in Toscana nel XII secolo. Una visione lo condusse a Montesiepi dove si convertì, lasciò le armi e iniziò a vivere come un eremita. Leggenda vuole che, non avendo una croce per pregare, se la fece infilando miracolosamente la propria spada in una pietra, dov’è rimasta fino a oggi.

Non si sa molto di più, né del santo né della spada. Lo stile dell’elsa e dell’impugnatura sono compatibili col periodo storico, mentre alcuni studi recenti, condotti grazie a una sonda, hanno confermato che il manufatto sarebbe realizzato con un metallo medievale. Indagini più approfondite richiederebbero di estrarla a forza dalla roccia, rischiando di romperla. Ci provarono alcuni ragazzi negli anni ’90 e infatti, guarda caso, la spezzarono. Da allora l’arma di San Galgano è protetta da una teca, nella penombra della chiesetta. In attesa di una mano prodigiosa che, se sarà destinata a estrarla, nondimeno saprà attraversare il plexiglass senza romperlo e far suonare l’allarme.

Se volete andarci

L’Abbazia di San Galgano è a una mezz’ora di auto da Siena. Tenete le indicazioni per Chiusdino: i ruderi della chiesa sono ben segnalati. Potendo, andate il Lunedì di Pasqua, quando si svolge la tradizionale Passeggiata a San Galgano, a piedi, partendo da Monticiano

La Strada della Poesia, nel cuore della Romagna

Alle porte di Faenza le colline disegnano uno dei paesaggi più bucolici d’Emilia Romagna. Filari di viti, prati che in primavera sono un trionfo di fiori, torri medievali e ulivi, da cui si ricava l’eccellente Olio Extravergine di oliva di Brisighella. I fianchi dei pendii sono spaccati da calanchi, quelle cicatrici pastose ricche di fossili, che raccontano di un mare lontano. Nel tempo, più che nello spazio, visto che l’Adriatico è dietro l’angolo e ogni tanto il suo fiato sapido arriva fino a qui.

Prendendo qualcuna di queste strade, verso i colli di Oriolo dei Fichi, San Mamante e Castel Raniero, potreste notare a un certo punto dei cartelli appesi agli alberi, rossi con le scritte gialle. Rivestono i sentieri e i fianchi delle carreggiate in maniera discreta. Accostate l’auto e scendete: siete arrivati. Se invece dell’auto avete una bici, tanto meglio: è tutto più facile.

Quei cartelli sono pieni di poesie. Parlano di allodole, lucertole, usignoli e lucciole; di colori che si alternano con l’andare delle stagioni, di istanti di vita contadina e inviti all’amore. È un affresco tenero e stupito del mondo di qui, filtrato da un senso di religiosa appartenenza.

Quella che ormai è nota, in zona, come Strada della Poesia, è opera di un uomo del posto, per tutti semplicemente Nino da Oriolo. Dopo una vita da agricoltore unita all’insegnamento negli Istituti Agrari, con una parentesi di lavoro in un kibbutz in Israele, il signor Nino ha iniziato a scrivere poesie. Prima su quaderni poi, dal 2008, su cartelli che appendeva agli alberi. Gli Amministratori li facevano togliere e lui li riattaccava, garbatamente. In un secondo momento hanno cominciato a sostenerlo, trasformando la sua opera in una meta turistica.

Quando ho conosciuto il signor Nino aveva già 82 anni. Mi accolse con gentilezza, raccontandomi la sua vita e il legame forte con le colline che si perdevano davanti a noi, nella nebbiolina dell’orizzonte. Chiamava quel luogo Oasi del Silenzio. Lì raccoglieva le immagini che diventavano poesie. Quel giorno mi disse più volte di essere preoccupato per le rondini: in passato il loro rincorrersi riempiva il cielo, ma oggi se ne contano poche ed è tutta colpa nostra. Ossia, dell’inquinamento.

Poco lontano c’è anche un vecchio sentiero militare, che durante l’ultima guerra era un viavai di soldati. Adesso è un tripudio di poesie d’amore, grazie all’intuizione e al lavoro di Nino da Oriolo. Lo chiamano appunto Il sentiero dell’amore. I giovani passano e leggono, cogliendo l’invito a fermarsi che arriva da questo signore mite e dolce; sono parole simili a quelle dei lirici greci, più di duemila anni fa. Qualcuno fotografa quei versi, altri sorridono pensierosi, mentre attorno pulsa il silenzio della campagna. La pace e la fiducia nell’uomo si costruiscono anche così.

Nel rosso calar della sera,
i grilli battono la serenata alla luna.
In fila gli olmi si stagliano in cima al colle,
salutano la mia giornata di lavoro.
Li sento vicini,
vivono nella mia terra,
vivono nel mio sole,
sentono il mio vento,
godiamo del piacere di vivere.
In silenzio mi accompagnano nel mio andare.
Non sono solo,non siamo soli.

Nino da Oriolo

Se vuoi andarci anche tu

La Strada della Poesia si trova sulle colline attorno a Brisighella (Ravenna). Trovate qui alcune informazioni sulla zona. E per dormire in un posto splendido, andate da Barbara e Roberto all’Agriturismo Ca’ de’ Gatti. Dite che vi manda Devis, lo scrittore che ha presentato lì il suo romanzo L’inverno dell’alveare!

Vignola, primo amore

Una piccola cosa mi dà una puntina d’orgoglio: che sulla mia carta d’identità ci sia scritto “Nato a Vignola”. Fosse anche perché ormai da diversi anni nessuno nasce più nell’ospedale locale, dove hanno soppresso il Reparto Maternità. Quando ci passeggio la sera, da solo, mentre la nebbia solleva dall’asfalto profumi di fango e foglie morte; quando i lampioni ingialliscono i profili delle case, coi loro portici neri; quando l’autunno – come in questi giorni – riveste d’oro i pioppi lungo il fiume e colora le colline del Lambrusco di viola, dove ti puoi rannicchiare in un palmo di silenzio; quando alti, nel cielo cristallino che l’inverno ogni tanto ci regala, passano gli aerei in discesa verso Bologna, per non dire delle nostre primavere candide, lungo la valle del Panaro ricamato di ciliegi in fiore… Allora la mia Vignola mi pare l’unico luogo bello e sensato dove accucciarsi e aspettare che le cose cambino, che fioriscano amori, che cresca quella passione capace di sottendere ogni progetto.

Da bambino ho imparato a ubriacarmi di storie fantastiche nelle stanze del nostro Castello. Lì c’erano fantasmi, passaggi segreti di cui ancora oggi si vocifera, antichi graffiti e iscrizioni sui muri che raccontano di prigionieri e gente caduta in disgrazia. Ecco: basterebbe già questo. Non so quanti altri cittadini al mondo abbiano a disposizione un Castello personale – e uno dei più belli della Regione, tra l’altro – aperto ogni giorno e dove entrare liberamente, senza pagare, ammessi a un vagabondaggio tra stanze, torri, scale. Come in una chiesa laica. Da bambino ci passavo interi pomeriggi con la nonna, sperimentando la suggestione che deriva dal sentirsi parte di un mondo carico di storie. Già allora c’erano coppiette per mano, qualche raro pittore che si portava a casa una veduta sulla tela, e tanta pace. Diventato ragazzo, andavo nel Castello a leggere, seduto sul davanzale, col Panaro che scintilla nel suo greto bigio, abbracciando con lo sguardo colline e campanili. Adesso ci porto i miei figli e anche loro lo sentono cosa propria. Mi raccontano che ci vive un drago, anche se non l’ho mai visto. O forse non ho più l’età per distinguere i draghi nei castelli.

Se un giorno metteranno un biglietto per entrare, io andrò su un sasso a farmi un pianto silenzioso, perché anche gratuità è turismo; ma proverò a non fare polemiche, visto che i tempi cambiano e le nostalgie valgono ben poco. Però, ancora per un po’, mi godo il piacere e l’orgoglio di accompagnare quelli che vengono a trovarmi nel Castello, salutando i custodi come fossero amici, e mostrando ai visitatori stanzoni, affreschi, la splendida Cappella e le iscrizioni segrete che passerebbero inosservate.

Io e mia moglie siamo diventati una famiglia in una indimenticabile casina sui tetti di Vignola. Eravamo i più alti di tutti: d’inverno il freddo era terribile e in estate il suadente canto dei piccioni iniziava alle cinque del mattino. Entravano i pipistrelli e dalle travi un tantino macilente la polvere scivolava diretta sulla tavola, sempre illuminata dal sole, in mucchietti abbastanza inquietanti. Era una gioia innamorarsi (nuovamente) di Vignola da lì, scrivere seduti sul davanzale buttando l’occhio ai comignoli, ascoltare la neve che scende e ghiaccia, dare da mangiare ai passerotti. Adesso non viviamo più lì e siamo scesi in basso, dove c’è più spazio ma non si sfiorano le torri con un dito. Eppure quei due anni sui tetti, in un villino minuscolo e malandato (si accedeva al solaio passando da una porta nella doccia), mi hanno legato ancora di più alla bellezza antica e profumata della mia città.

…Come quando rifaccio per l’ennesima volta lo stesso percorso, guidato da uno sprazzo di luce, da una nube che contrasta col cielo, e salgo fino ai cipressi che coronano una certa collina. Tutti i Vignolesi conoscono questo luogo di passione: tanti figli sono stati concepiti qui, in auto o sul prato adiacente. L’ho rifotografato anche di recente, ma è difficile catturarne lo spirito. C’è l’immensa pianura che scivola fino al Po, con le Alpi imbiancate che baluginano; c’è il rosso delle vigne e dei frutti della rosa canina; ci sono loro, i cipressi appunto, inconfondibile sigillo d’italianità, e lontano il cimitero più bello del mondo, sulla valle, tra i campi arati e una vecchia villa. Qui, dove le colline trasudano argilla e la terra continua a muoversi tra i rovi… E preghi che i ciliegi non cadano nel vuoto, sostituiti dalle case. Ma pure questa, forse, è nostalgia.