Le spiagge bianche di Rosignano Solvay: i Caraibi in Toscana

Mare turchese e sabbia candida come alle Maldive, ma dietro c’è un segreto un po’ inquietante

No, non siamo a Santo Domingo o giù di lì, anche se tutto la fa pensare, e no, le foto non sono photshoppate. C’è un luogo nella nostra bella Toscana dove il mare ha un colore così turchese da sembrare irreale e la sabbia è candida come farina. Si tratta delle Spiagge Bianche di Rosignano Solvay, in provincia di Livorno, all’estremo lembo settentrionale della costa maremmana. Solvay vi dice qualcosa? Vi ricorda forse il bicarbonato? Ecco, ci avete beccato. Infatti la nota azienda chimica si trova circa a un km dalla spiaggia e il mare deve allo stabilimento il suo straordinario colore.

L’azzurro non è naturale, ma frutto dei residui di lavorazione sversati negli anni, ricchi di carbonato di calcio, che hanno via via sbiancato sabbia e fondale. La sodiera è la più grande d’Europa e venne costruita nel 1912 nei pressi della costa per produrre, oltre al noto bicarbonato di sodio, acido cloridrico, cloruro di calcio, polietilene e altre amenità chimiche. Nel 1917 si era già creato attorno alla fabbrica un vero e proprio paese, richiamando lavoratori da tutto il circondario, un territorio fortemente depresso e afflitto dalla malaria e dal brigantaggio. Il borgo venne chiamato Solvay Rosignano proprio in onore dei fondatori dell’azienda, i fratelli di origini belga Ernest e Albert Solvay.

All’interno di Rosignano Solvay sorse anche il Villaggio Solvay, raro esempio di “città giardino” in Italia. Si tratta di un insediamento residenziale in cui le abitazioni, realizzate con uno stile architettonico nordico, riflettevano le gerarchie interne dell’azienda: numerate in ordine crescente a seconda dell’importanza di chi ci abitava, andavano dalle case di tipo 1 per i dirigenti alle bifamiliari di tipo 7 per gli impiegati fino a quelle di tipo 9, con quattro appartamenti, per gli operai. Lo so, a noi la cosa fa venire in mente suggestioni di fantozziana memoria ma all’epoca il villaggio, progettato su una maglia ortogonale, aveva un aspetto unitario e autosufficiente. C’erano scuole, un ospedale, il circolo-teatro a prezzi popolari che richiamava grandi folle, aree verdi ricreative e pure un casino-foresteria.  

Oggi gli stabilimenti della Solvay continuano la loro produzione, circondati da dune di sabbia abbacinante, al cospetto di un lungo pontile a cui attraccano le navi. Dall’azienda arriva un canale che sversa in mare un’acqua di uno strano colore opalescente. A intervalli regolari si levano dalla sabbia dei cartelli con su scritto “Divieto di balneazione”, ma per molti la tentazione è troppo forte e in estate si contano sempre tante persone che fanno il bagno. I più, increduli, si dilettano ammirando le sfumature dell’acqua e scattando foto agli amici per dire di essere alle Barbados. Pensate che, nonostante tutto, questo tratto di costa è stato insignito più volte con la Bandiera Blu.

La storia di Manfred, l’uomo che scolpiva la scogliera

Si addormentò in un giorno di dicembre, prendendo il largo su una zattera di pietra lieve come piuma.

Aveva spedito poche righe a La Voz de Galicia, il quotidiano locale, mentre tanti volontari da ogni dove si affannavano lungo le spiagge e le scogliere. Era tutto sommerso da una resina vischiosa, che imbrigliava sabbia, pesci e alghe in una mistura oleosa. Gli uccelli sembravano grovigli zuppi di fuliggine: arrivavano a riva e stramazzavano, soffocando. “Lasciate tutto così com’è”, scriveva Manfred pieno di sconforto, “per non dimenticare”. Intanto vagava seminudo come sempre, con solo uno straccio attorno ai fianchi, nonostante il gelo di novembre e le grida furibonde dell’Atlantico coperto di petrolio. Era quello della Prestige, affondata al largo della Costa da Morte, dove fari, croci e santuari si aggrappano come agavi all’ultimo lembo di terra europeo, prima che tutt’attorno si distenda l’orizzonte inquieto dell’oceano. Ancora oggi i pellegrini gettano pensieri nel nulla dagli scogli butterati di quella che i Romani chiamavano Finis Terrae; qualcuno brucia i calzini in un fuoco improvvisato, altri vanno in cerca di capesante sulla spiaggia, rinnovando la tradizione di chi conclude il Cammino di Santiago. L’onda nera, sgorgata dal ventre della Prestige, aveva devastato anche il giardino di pietra di Manfred, proprio in riva la mare. Così, dopo il disastro, non lo videro più. Anche le ali dei suoi sogni erano diventate pesanti, intaccate dal male.

La gente di Camelle lo chiamava El Aleman. Il Tedesco. O in maniera affettuosa Man, e a Manfred quel nome così evocativo piaceva. Arrivò dalla Germania negli anni ’60. Vestiva bene e in quei giorni non saltava una Messa. Poi si innamorò di una maestrina, come nelle favole. Ma lei lo rifiutò, come in quelle che finiscono male. Allora Manfred si ritirò in angolo appartato, imparando a vivere di Oceano. Cesellava scogli, li impreziosiva coi doni del mare: rottami, ossa, frammenti di storie levigate dalla salsedine che rinascevano sottoforma di sculture. Sembravano lì da sempre, come frutto di una prodigiosa germinazione. Man si ritirò a vivere nel cuore del suo giardino. E si denudò, d’inverno come d’estate, nuotando in pace tra quelle stesse onde che spezzano le navi in due.

Dicono che fu per malinconia, nel vedere lo scempio del petrolio che aveva sommerso Camelle e il piccolo regno sulla scogliera tirato su in 40 anni di silenzioso lavoro. Lo ritrovarono freddo, accoccolato nel suo castello di 5 metri quadri, tra centinaia di disegni che gli donavano i visitatori. Pare avesse chiesto di farne un museo, se si può, se non è troppo disturbo. E così l’unica vittima tra gli uomini della Prestige, il naufrago Manfred, si addormentò in un giorno di dicembre, prendendo il largo su una zattera di pietra lieve come piuma. Da allora cielo e nebbia e vento hanno fatto il resto, consumando gli scogli, cancellando i colori, riportando i rottami, le ossa, e i frammenti di storie nuovamente al largo, per la seconda volta lontano dagli uomini, in quel grande vuoto che sfuma col Nuovo Mondo.

Manfred Gnädinger è morto il 28 dicembre 2002 nel minuscolo borgo di Camelle, sulla costa galiziana. Il Comune pagò i funerali, a cui parteciparono centinaia di persone. Il giardino di pietra ha perso gran parte del suo fascino onirico, danneggiato prima dal petrolio della Prestige, poi da atti vandalici e dalle intemperie. Nel piccolo Museo all’aperto, istituito in seguito, è ancora possibile vedere quel che resta della baracca dove ha vissuto. Le onde continuano ad abbattersi sui monconi delle sue opere, metafora di una miracolosa sinergia tra uomo e natura.

Info: http://www.mandecamelle.com

Testo: ©DEVISBELLUCCI – Tutti i diritti riservati
Foto: en.wikipedia.org

Il Parco Naturale del Monte San Bartolo

Natura incontaminata, antichi borghi e spiagge dorate in quest’angolo di paradiso nella regione Marche

Partendo da Trieste e scendendo verso sud, il San Bartolo è il primo monte che si alza sulla riviera adriatica, precedendo il più celebre Monte Conero in provincia di Ancona. I colli del San Bartolo si susseguono da Gabicce Mare fino a Pesaro e regalano scenari inusuali rispetto alle coste piatte e sabbiose, tipiche dell’Emilia Romagna. Tutta l’area, circa 1600 ettari, è tutelata dall’omonimo Parco che venne istituito nel 1994.

Di recente ho avuto modo di esplorare il San Bartolo percorrendo a piedi la splendida strada panoramica (SP44) che l’attraversa, molto amata dai ciclisti. Si tratta di circa 25 km, immersi in un paesaggio naturale che dona una grande pace, tra campi dorati, filari di alberi e siepi, qualche raro casale. Il panorama abbraccia le colline ondulate dell’entroterra romagnolo e marchigiano, col Montefeltro, il castello di Gradara che ti accompagna per un lungo tratto, la rupe di San Leo – lontana nella foschia – e il massiccio del monte Titano, brulicante di abitazioni, che fa parte della Repubblica di San Marino.

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Nel Parco si incontrano alcuni minuscoli borghi, tra cui l’imperdibile Fiorenzuola di Focara, che conserva intatte, nelle sue romantiche piazzette e nei vicoli, la memorie del passato. Anche Dante Alighieri passò di qui e, sulla porta attraverso cui si accede al borgo, una targa reca inciso un verso del Canto XXVIII dell’Inferno: “Poi farà sì ch’al vento di Focara, non farà lor mestier voto né preco”.

Il Castello di Fiorenzuola di Focara, chiamata forse così per la presenza di fuochi di segnalazione per i naviganti o per la presenza di fornaci per la cottura dei laterizi, sorge su uno sperone roccioso a strapiombo nel mare. Da qui è possibile ammirare le falesie che emergono dalle acque basse, nonché la stretta spiaggia di ciottoli e ghiaia, selvaggia e lontana anni luce dai lidi frequentati dal turismo di massa. Un stradina tutta tornanti, percorribile in estate in navetta, conduce alla base della rube, in un silenzio rotto solo dai canti delle cicale. Il mare ha uno straordinario colore verde smeraldo, con sfumature turchesi e opalescenti a ridosso della riva, che contribuiscono a fare del San Bartolo un luogo bello da non credere, a due passi dalle nostre abituali destinazioni.

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Purtroppo, proprio nei dintorni di Focara, un’ampia area del San Bartolo porta i segni del devastante incendio che colpì la zona, nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 2017. Tra l’erba, che intanto è ricresciuta, si alzano i tronchi anneriti degli alberi, in un malinconico contrasto. Il primo gesto che possiamo fare per aiutare il Parco a rifiorire è dunque andare a conoscerlo, sicuri di innamorarcene.

Come arrivare

Il Parco è ben segnalato e comodamente raggiungibile da Pesaro e Gabicce, entrambe servite dalla A14 Adriatica. Per esplorarlo seguite la SP44 che appunto va da Gabicce Monte a Pesaro, e non la statale Adriatica, che corre invece esterna al Parco.

Come ti giro il mondo su una nave cargo

Secondo alcuni è il modo di viaggiare più romantico, antico e slow (a parte andare a piedi). C’è gente che ci fa addirittura il giro del mondo, ma alla fine quel che resta nel cuore, dopo migliaia di chilometri, non sono tesori archeologici o monumenti o meraviglie della natura, se non una. Il colore. Blu. Che ti circonda per giorni interi e settimane, nelle sue più avvolgenti sfumature. E l’oceano di stelle che fa da specchio alla terra, ogni notte, con le sue nebulose come spuma perlacea e la luna che scintilla sull’orizzonte. Lontano dai social, lontano dal web.

Sono i viaggi sulle navi cargo. Quelle lunghe attraversate dove fai compagnia alle merci, e ti rendi conto che ancora oggi, in questo mondo così globalizzato, tutto si trasporta lentamente via mare. Ci sono molteplici sbarramenti che fermano le persone, ma non gli ananas che maturano nelle stive o le automobili o le scatole di caviale.

Diciamo subito che gli svaghi a bordo sono pochi, per lo più limitati alla TV, a una piccola biblioteca, magari un tavolo da ping-pong o un biliardino. Non ci sono in programma escursioni organizzate o animazione: la gestione del tempo è invece affidata alla vite interiore del viaggiatore. Però il pacchetto prevede pensione completa, tanto spazio a per passeggiare in solitudine fra colorati container, immaginandone il contenuto, nonché la possibilità di ascoltare le storie dei marinai e ammirarli all’opera. Avrete senz’altro modo, prima o poi, di salire in plancia di comando o di scendere in sala macchine per una visitata guidata, sperimentando l’antica cortesia degli uomini di mare.

Veniamo adesso al come e sfatiamo alcuni miti. Il primo, che costi poco. Certo, viaggiare su una nave cargo può costare meno di una crociera di pari durata, ma il prezzo è tutt’altro che regalato (anche 150 Euro al giorno). In genere, i passeggeri sono pochissimi. Stando al diritto internazionale, infatti, sulle navi cargo possono salire un massimo di 12 passeggeri se non è presente un medico a bordo. Pertanto, è improbabile stringere amicizia con un collega vagabondo. Si viaggia con un certo comfort, ma senza troppi vizi, e il tutto va organizzato con grande anticipo, contattando la compagnia, inviando tutti i documenti necessari e naturalmente pagando. Non sempre sono ammessi animali.

Per noi Italiani, la miglior opzione è viaggiare con la Grimaldi Lines, che offre questo servizio. Qui trovate tutte le informazioni. Senza scendere nei dettagli, i cargo della Grimaldi fanno la spola tra il Sud America (Brasile, Uruguay e Argentina), il Senegal e l’Europa del nord; gli USA, il Canada e ancora l’Europa del nord; il mediterraneo orientale e occidentale, questa volta partendo dall’Italia (ad esempio da Monfalcone, Ravenna, Salerno o Civitavecchia, a seconda dell’itinerario); l’Italia e gli USA. Ebbene sì, è possibile arrivare in Nord America via nave, sulla rotta degli emigranti italiani nel ‘900. Contate circa due settimane da Civitavecchia a Baltimora. In generale, si torna con mezzi propri perché la nave non fa andata e ritorno, ma procede verso altri porti, su tragitti anche complicati, e passa anche molto tempo prima che torni al porto di partenza, ossia dove siamo saliti noi.

Veniamo a qualche FAQ. Sono ammessi bambini a bordo? Dipende dalla compagnia, ma tipicamente sì. Sulla Grimaldi è previsto uno sconto del 50%. Posso caricare la mia auto? Di norma sì, con un sovrapprezzo. Quando sono a bordo, devo dare una mano? No: siete ospiti paganti, non lavoratori. Anzi, a parer mio è gradito se non tocchiamo nulla. Posso scendere in tutti gli scali? No. Per motivi di logistica, lo sbarco è consentito solo in alcuni porti.

Di recente un mio amico ha fatto un’attraversata atlantica proprio con Grimaldi Lines, da Rio De Janeiro a Dakar, insieme alla moglie. Ne è uscito (pardon, sbarcato) entusiasta. 9 giorni a contatto col mare, attraversando l’equatore, in uno sterminato deserto azzurro. Pensate che non hanno mai incontrato nessuno, nemmeno virtualmente sul radar (parola del comandante). Potete saperne di più della sua esperienza consultando il gruppo su Facebook “Facciamo un giro?” Per chi ama sognare, sono splendide le pagine che Tiziano Terzani dedica al suo viaggio in nave container da Trieste alla Thailandia – se ricordo bene – raccontato in “Un indovino mi disse” (TEA).

Altri siti consigliati, magari per arrivare in Oceania o navigare nell’Oceano Indiano, sono:

The Internet Guide to Freighter Travel, totalmente dedicato ai viaggi su navi container;
Freighter Cruises
Freighter Expeditions

Qualcuno ha già fatto un viaggio simile? Aspetto i vostri racconti nei commenti o via mail.

Foto di copertina: Hummelhummel via wikipedia.com

La terra più contesa del mondo? Un orribile scoglio in mezzo all’Atlantico

Vi dico subito che non ci sono mai stato, ma la cosa non mi turba particolarmente. Il posticino protagonista di questa storia si chiama Rockall. Oppure Rocabarraigh in irlandese. O ancora Sgeir Rocail in gaelico scozzese. E dove la mettiamo la carezzevole versione islandese Rockalldrangur? Nonché il faroese (che sarebbe la lingua delle remote isole Fær Øer) Rockall o Rokkurin. Insomma, una simile sequela di nomi calzerebbe a pennello sul passaporto di qualche pingue sovrano. In realtà stiamo parlando di un assai meno regale scoglio, tra l’altro coperto di cacca d’uccelli.

Questo poco appetibile sassone alto dai 20 ai 30 metri, a seconda delle condizioni del mare, sorge come un’anima in pena nel mezzo dell’Atlantico del Nord, dove la nebbia è fitta, l’onda alta e la solitudine totale. Ecco le coordinate, se uno desidera fargli una visitina virtuale: 57°35′48″N 13°41′19″W. Ebbene, il nostro amico Rockall, che in realtà è la cima di un vulcano, è conteso all’arma bianca da ben quattro Paesi, ognuno dei quali appunto l’ha ribattezzato nella propria lingua. Il quartetto a briscola è composto, in ordine sparso, da Islanda, Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Che poi quest’ultima disti dallo scoglio più che la Francia o il Belgio poco importa, poiché fortuna vuole che lo Jutland possa partecipare alla diatriba marinara grazie alle patrie isole Fær Øer, in effetti assai prossime all’oggetto del contendere.

Naturalmente questi Paesi non si stanno dando battaglia con l’intento di impiantare una colonia sull’isola che non c’è, o al minimo un penitenziario di massima sicurezza. L’interesse in gioco è più concretamente legato al petrolio che si nasconderebbe nei fondali circostanti e, in parte minore, alla volontà di sfruttare in via esclusiva le risorse ittiche locali. In effetti, l’eventuale proprietario di Rockall vedrebbe espandersi le proprie acque territoriali. Parentesi: su tali acque aleggiano tetre maledizioni, visto i tanti naufragi in zona fin dal tardo ‘600, che farebbero del posto la più grande lapide sulla faccia del Pianeta.

Il problema, al di là degli atti parlamentari della varie Maestà, è che secondo la Convenzione delle Nazioni Unite per il diritto internazionale marittimo, si definisce “isola” qualunque terra, per brutta che sia, in grado di assicurare la vita degli ipotetici colonizzatori. Diversamente, si tratta appunto di uno scoglio e come tale è Patrimonio dell’Umanità, ivi compresi i tesori in termini di forzieri affondati, idrocarburi e guano per impiego nel campo dei fertilizzanti. La scappatoia è dunque legata alla possibilità di occupare la roccia in pianta più o meno stabile, magari con faro simbolico.

Ebbene, hanno fatto pure questo. Non il faro, ma l’invasione. Ci provarono, ad esempio, nel 1955, quando un naturalista e tre militari della Royal Navy vennero spediti da Londra a conquistare Rockall. La colonia ebbe tuttavia vita breve e il mare tornò presto a regnare in casa propria. L’occupazione più scenografica è stata quella di Greenpeace, che nel ’97 mandò sul sassone un manipolo di attivisti che fondarono lo Stato libero di Waveland, o «terra delle onde», per protestare contro lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi sommersi. Come ben sappiamo, è la finanza che governa la vita delle Nazioni: Waveland, pertanto, ebbe vita breve (42 giorni). Giusto il tempo di veder fallire la società che aveva sponsorizzato la colonizzazione.

Oggi l’isolotto fantasma continua la sua lotta con le onde, ignaro di essere un pezzo di mondo tanto desiderato. Una leggenda vuole che Rockall sia l’ultimo frammento del fiabesco Regno di Brazil, la terra dell’eterna giovinezza. Who wants to live forever? Cantavano gli indimenticabili Queen. Fate voi se vivere a Rockall vale il prezzo dell’immortalità.

Foto di copertina: commons.wikimedia.org

©DEVISBELLUCCI Se copiate il testo senza chiedere subirete l’ira mia e di Quelo, a cui sono assai devoto dagli anni ’90.