Ciliegi fioriti in una stanza

Di solito, in questi giorni, vado a camminare vicino al nostro fiume, il Panaro. Oppure risalgo sulle prime colline, quelle che vedo dalla finestra di casa, all’ombra del monte Cimone lontano, ancora un poco imbiancato dalla neve. Sono quarant’anni che vivo qui e ogni volta mi stupisco, in primavera, per quanta luce scorra sui prati ritessuti di fresco, sommersi da un’invasione di fiori color limone. Succede anche d’autunno per i vigneti del Lambrusco che rosseggiano nelle loro trame, ma tra marzo e aprile la terra riversa al cielo un’energia abbacinante, e non desidero di essere altrove. Oggi che il sole mi invade la stanza, tirandosi dietro un profumo che porta all’infanzia, penso ai ciliegi della mia Vignola. Qualcuno lo riesco a spiare anche dalla finestra, ma i più belli e vecchi sono fuori portata: lungo il letto fertile del fiume, appunto, o troneggiano sparsi come candide capigliature nei campi, vicini ai fossi, lungo le strade, impreziosite di petali al primo colpo di vento.

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Le gente viene da lontano per rifarsi gli occhi con la nostra fioritura e vedere la Festa che il mio paese le dedica da oltre 50 anni; adesso è tutto fermo, rimandato… Chissà. Eppure mi rasserena la divina indifferenza della natura alle nostre sciagure. Facevo caso, stamattina, mentre portavo in strada il bidoncino dei rifiuti, al ronzio delle api che vorticano attorno agli alberi o tra i rami di una grossa pianta di rosmarino, ovviamente fiorita; l’erba lunga del nostro parchetto, anch’essa un trionfo di fiori, e fiori ovunque ed escrescenze vegetali sul marciapiede, sul selciato, in ogni angolo libero senza la nostra mano che provvede a orientare e ripulire. Un caos che è un trionfo e strappa un sorriso.

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I ciliegi imbiancano in ogni stanza dove riusciamo a chiudere gli occhi e sentirci in pace. I ricordi bastano, le mie colline coi cipressi, i casali, i calanchi color metallo e i boschi appena oltre le case, nella foschia di mezzogiorno, consolano e fanno compagnia da lontano. Anche il bello che riscalda alle nostre spalle ha un suo sapore buono: teniamocelo stretto, aspettiamo, facciamo quel digiuno che è togliere per dare spazio. Questo ritorno all’essenzialità, mentre la primavera giunge a rinnovare il mondo e la sua voce sommerge le nostre quarantene, può raccontare di quanto potere siano capaci le nostre anime, se ben orientate e ripulite con cura da ciò tutto che disavanza.

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A caccia di fossili sul greto del Panaro

A due passi dal centro di Vignola, nel Modenese, uno dei più accessibili giacimenti fossili d’Italia, vera gioia per i bambini!

Sarò stato in terza elementare o giù di lì. La maestra disse: “La prossima settimana andremo a fossili. Portate un cacciavite, scarpe vecchie e, chi ce l’ha, un pennello”. Mi aspettavo un viaggio lontano, con l’autobus, invece si trattò solo – per modo di dire – di un viaggio lontano nel tempo. Uscimmo da scuola, attraversammo il centro storico di Vignola in fila per due, mano nella mano come usava allora, per poi scendere sulla riva del nostro fiume Panaro. Solo che in quel punto, non lontano dalle rovine del vecchio ponte, lo scenario era assai diverso da quello che conoscevo: non la vasta distesa di sassi e ciottoli su cui, in estate, si assiepavano brandine e ombrelloni (la chiamavamo la Rimini dei poveri), bensì un affioramento grigiastro, duro come la pietra, che pareva una colata di sabbia fine rinsecchita. Lì ci aspettava un signore di cui non ricordo il nome, e che ahimè immagino sia morto da tempo, visto che era già vecchiotto allora. Era uno dei responsabili del museo civico locale, pronto a tenerci una lezione sull’aspetto che aveva il mondo milioni di anni fa, quando la Pianura Padana si trovava negli abissi di un mare scomparso.

Il giacimento fossilifero è ancora lì, sotto gli occhi di tutti, uno dei più accessibili d’Italia. Basta lasciare l’auto nel parcheggio sotto al castello di Vignola, al Lavabo, e incamminarsi a piedi verso il fiume. La spiaggia fossile è frequentata da gente che prende il sole, fa Yoga o porta a spasso il cane. Tecnicamente si tratta di affioramento di argille azzurre plio-pleistoceniche: granuli finissimi di sedimento color piombo che inglobano una fauna ricchissima, costituita per lo più da conchiglie. Le vedi sbucare, imbrigliate nella polvere, come perle luccicanti. Sono la suggestiva testimonianza di un antichissimo fondale sabbioso, quando gli Appennini non erano altro che anonimi rilievi montuosi in mezzo al mare. Simili affioramenti che pullulano di fossili si trovano anche altrove, nella porzione sub-appenninica di Marche, Toscana, Piemonte e naturalmente Emilia Romagna, ma di rado sono così accessibili come nel tratto del Panaro che va da Marano a Vignola, portati a galla proprio dall’erosione del fiume.

A questo punto non resta che armarsi delle celebre santa pazienza e di una buona dose di delicatezza. L’argilla, infatti, è piuttosto compatta e serve olio di gomito per spaccarne dei frammenti da passare al setaccio (in senso figurato), alla ricerca dei preziosi fossili. Il fatto che sia piovuto di recente può aiutare, ma aumenta anche il tasso di fango: se avete dei bambini si divertiranno da matti, ma alla fine servirà un po’ di calma zen per ripulirli. I piccoli paleontologi vivranno l’emozione di riportare alla luce cornetti e conchiglie bivalvi di ogni forma e dimensione (non sto a scrivervi i nomi scientifici, che tanto uno se li dimentica dopo tre secondi). Gli annali riportano ritrovamenti straordinari: granchi, la mandibola di un tapiro e pure un fossile di ungulato, ritrovato nel 1987. Potete vedere questi reperti nel Museo Civico di Vignola (Via Bellucci 1, aperto ogni domenica con ingresso libero dalle 9:30 alle 12:30). Alla fine tornerete a casa con l’immancabile scatoletta colma di frammenti fossili da spazzolare col pennello e sistemare nella cameretta dei figli. Magari qualcuno di loro, da grande, deciderà di fare il cacciatore di mondi perduti.

La storia dell’ultimo fiammiferario

Gli incontri dell’infanzia raramente vanno perduti. È forse per quell’atteggiamento d’amore e fiducia, privo di giudizio, con cui i bambini guardano il mondo. Era una primavera di più di trent’anni fa quando ho conosciuto il signor Renzo Masi, ma la sua storia dentro di me non è mai sbiadita. Mi ricordo che era stato freddo, prima: un inverno gelido e candido sulla nostra Vignola, di quelli che non passano ormai più, a infagottare le case e i vicoli sotto una coltre di neve alta appunto come un bimbo delle elementari, come me allora e mia figlia adesso. I fili della luce si spezzavano, i bordi del fiume Panaro dormivano nel ghiaccio grigio azzurro e potevi camminarci sopra per un poco, dando la mano alla nonna.

La primavera tornò a imbiancare per la seconda volta le colline e la valle, nello sfavillare magico dei ciliegi fioriti, e sentivamo già aria di vacanza. Quel giorno però la maestra aveva preparato un incontro speciale. C’era un signore sorridente e gentile, che entrò nella nostra aula tappezzata di carte geografiche e appoggiò sulla cattedra uno scatolone. Ci salutò, ci chiese come stavamo (“Beeene!” tutti in coro) e poi tirò fuori dall’imballaggio artigianale un calessino. Era fatto di fiammiferi di legno usati. Tranne i cavalli: quelli erano di terracotta. Andammo tutti in fila ad ammirare la creazione, mentre io ripensavo alla Piccola fiammiferaia, tristissima favola di Andersen raccontataci di recente in classe.

La storia di Renzo Masi però non è triste. Sa invece di pazienza e dedizione. Tutte virtù che scaldano i cuori dei più piccoli e fortunatamente anche la parte bambina del nostro cuore cresciuto. Per anni questo signore della Vignola di un tempo ha costruito un patrimonio di architetture – ma anche carrozze, natanti, ponti, etc – utilizzando solo fiammiferi usati e colla. Ricordo le vecchiette di allora che non buttavano i loro fiammiferi per darli al signor Masi, capace di costruirci chiese e fortezze. E in effetti il bello è che gran parte della materia prima era donata dalla gente. Ciò che non era più utile diventava spunto d’ispirazione.

Tra le opere del fiammiferaio spiccano i tanti castelli della nostra Emilia, in quella che è una testimonianza semplice e preziosa del legame che unisce un uomo alla propria terra. E poi, i grandi monumenti d’Italia e d’Europa: la torre Eiffel, quella di Pisa, il gigantesco duomo di Milano – forse il suo capolavoro – realizzato con ben 33.000 fiammiferi. Capitava di vederlo all’opera durante i mercatini dell’annuale festa con cui Vignola celebra la fioritura dei ciliegi. Renzo stava lì, su un tavolo, in mezzo ai suoi manufatti. Salutava la gente e raccontava il come e il perché.

Uno di noi disse: “Sarà molto ricco, coi soldi che guadagna a venderle”. Lui rispose, spiazzandoci, che i figli non sono in vendita. Stesse parole usate da un pittore/scultore che avevamo conosciuto qualche tempo prima, sempre per iniziativa della maestra. Ci rimasi deliziato. Come ogni volta, appunto, che ho incontrato la gratuità: quel fare il bene che basta a se stesso in quanto accarezza l’anima. Ancora di più, mi piacque come il signor Masi aveva iniziato la sua opera. Ho dovuto passare un lungo periodo chiuso in casa ammalato. Allora avevo il morale proprio  a terra. Immaginare prima, e costruire coi fiammiferi poi, mi ha aiutato a passare il tempo e superare la tristezza.

Allora è stata una buona malattia, pensai. E ne parlammo anche dopo, in classe: le difficoltà possono diventare spunto per grandi cose.

Oggi quel calessino di fiammiferi, che vidi sulla cattedra più di trent’anni fa, è qui davanti a me. Sul mio tavolo, mentre vi scrivo. Me lo ha donato la figlia di Renzo, quando in passato raccontai la sua storia su una nota testata. Andai con lei nel deposito delle cose di papà e mi disse: scegli quella che ti piace di più. Non volevo: era un dono troppo bello. Poi mi sono arreso alla gioia e senza alcun dubbio ho riconosciuto un pezzetto dei miei ricordi. Adesso lo conservo come una reliquia, insieme a una seconda opera. “Ne devi prendere due, perché hai due figli” disse infatti la figlia di Renzo dopo che avevo scelto il calesse. Così arrivò a casa mia anche un vascello con tanto di mercanzie sistemate sul ponte e albero maestro.

Quando mio figlio chiede: “Ma come ha fatto a piegare i fiammiferi per fare le ruote del carro? Non si spezzano?” io rispondo con le parole dell’artista. “Voi non credereste mai, ma in ogni scatola c’è sempre qualche fiammifero speciale, che si lascia modellare senza rompersi. Vanno cercati e messi da parte uno a uno, senza fretta, perché sono i più importanti”.

Il vero problema oggi non è distinguere il fiammifero docile tra i tanti secchi e rigidi: è che purtroppo non si usano quasi più. Non ne avremmo quindi mai abbastanza in dono dai vicini, dagli amici, da chi passa per la strada e ci riconosce, per farne un giorno il Duomo di Milano. Se anche avessimo la stessa arte dell’ultimo fiammiferaio.

Se volete vedere le opere del signor Masi

Purtroppo la preziosa collezione di miniature del signor Renzo Masi non ha la dimora fissa che meriterebbe per essere visibile a tutti. Normalmente, vengono organizzate delle esposizioni temporanee durante l’annuale Festa dei Ciliegi in fiore, che si tiene a Vignola tra marzo e aprile.

Dopo vent’anni un messaggio in bottiglia. Cioè, in castello

Ok: non si scrive sui muri, i graffitari vanno sanzionati, il fatto è ancora più grave se si tratta di monumenti, etc. Tutte cose verissime. Premesso questo, io ho sempre provato un piacere malinconico nel leggere graffiti e messaggi. Intendiamoci: mica tutti, eh. Intendo quelli vecchi, che raccontano vicende ormai morte e sepolte. Mi sembrano delle sincere espressioni di umanità e testimoniano che il tempo passa, ma noi rimaniamo sempre uguali. Ci struggiamo per le stesse pene, godiamo delle medesime gioie, pecchiamo degli stessi atti di (piccola) maleducazione.

Così, ogni volta che capito in un castello o in un antico palazzo o anche nelle catacombe, laddove le pareti non siano state intonacate di fresco, ecco che l’occhio scivola alla ricerca di una firma o di una data. Soprattutto vado a caccia di storie, con un velo di nostalgia. Se poi la stanza è vuota, l’incanto diventa perfetto: lascio correre la fantasia, dedicando un pensiero a quelle persone ormai inghiottite dagli anni e di cui, forse, rimangono solo quelle dieci parole sul muro.

Un amore, una sconfitta, una speranza.

Le stanze della Rocca di Vignola, dove vado spesso, costituiscono (ahimè) un tesoro in questo senso. Ci sono graffiti vecchi di secoli, di cui solo i Vignolesi DOC conoscono la collocazione. Ammetto che quando porto qualcuno in visita alla Rocca, ho una punta d’orgoglio accompagnandolo in questo o quell’angolo del castello per mostrargli le brevi autografie firmate di qualche prigioniero, o le parole che raccontano una passione non corrisposta di trecento anni fa.

Tuttavia, la scritta che amo di più nel suddetto maniero ha solo una ventina d’anni. È fatta a matita, dunque temo sempre che qualcuno la cancelli. Si trova in una stanzetta che era una prigione. Buia, angusta, con solo una finestrella, tra firme e date che vanno dalla fine dell’800 al ‘900 tutto.

È una splendida lettera d’amore. Risale al settembre del ’96. La vidi per la prima volta qualche anno dopo. Racconta di Silvia e Marco, probabilmente due ragazzini. È lei a scrivere. O aveva uno sgabello – difficile – o era alta, perché lo scritto non è proprio rasoterra.

Pensieri dolcissimi di chi si affaccia alla vita e ama senza se e senza ma, gettando tutto se stesso come si usa a quell’età. Perché non finirà mai, perché siamo destinati, perché solo noi due nell’universo. Quando, insomma, sono ancora lontane le parole di Guccini che canta “il peccato fu creder speciale una storia normale”.

Chiaramente non so chi siano Silvia e Marco, dove vivano adesso e che cosa facciano, ma so che è raro che una passione adolescenziale duri tutta una vita. Eppure spero che a loro sia andata bene. Che ogni tanto ritornino alla Rocca di Vignola a rileggere il romantico testo – che non rivelerò dov’è! – emozionandosi come allora. Magari coi loro figli per mano. Come in un messaggio in bottiglia che non si è spostato di un centimetro, la traccia del loro amore e della loro giovinezza è sempre lì, appena sbiadita, e speriamo che ci resti per sempre.

21-09-1996

[…] Queste pareti meritano di custodire i sentimenti e i pensieri di ogni sognatore che spera come me di rileggerli in vecchiaia […] Voglio che tu sappia, Marco, che mi hai rubato il cuore. Ora è tuo. […] Ti voglio immensamente bene, mi sono innamorata di te […] Se un giorno questo scritto verrà cancellato, sappi che lo potrei leggere nei miei occhi […]

Vignola, primo amore

Una piccola cosa mi dà una puntina d’orgoglio: che sulla mia carta d’identità ci sia scritto “Nato a Vignola”. Fosse anche perché ormai da diversi anni nessuno nasce più nell’ospedale locale, dove hanno soppresso il Reparto Maternità. Quando ci passeggio la sera, da solo, mentre la nebbia solleva dall’asfalto profumi di fango e foglie morte; quando i lampioni ingialliscono i profili delle case, coi loro portici neri; quando l’autunno – come in questi giorni – riveste d’oro i pioppi lungo il fiume e colora le colline del Lambrusco di viola, dove ti puoi rannicchiare in un palmo di silenzio; quando alti, nel cielo cristallino che l’inverno ogni tanto ci regala, passano gli aerei in discesa verso Bologna, per non dire delle nostre primavere candide, lungo la valle del Panaro ricamato di ciliegi in fiore… Allora la mia Vignola mi pare l’unico luogo bello e sensato dove accucciarsi e aspettare che le cose cambino, che fioriscano amori, che cresca quella passione capace di sottendere ogni progetto.

Da bambino ho imparato a ubriacarmi di storie fantastiche nelle stanze del nostro Castello. Lì c’erano fantasmi, passaggi segreti di cui ancora oggi si vocifera, antichi graffiti e iscrizioni sui muri che raccontano di prigionieri e gente caduta in disgrazia. Ecco: basterebbe già questo. Non so quanti altri cittadini al mondo abbiano a disposizione un Castello personale – e uno dei più belli della Regione, tra l’altro – aperto ogni giorno e dove entrare liberamente, senza pagare, ammessi a un vagabondaggio tra stanze, torri, scale. Come in una chiesa laica. Da bambino ci passavo interi pomeriggi con la nonna, sperimentando la suggestione che deriva dal sentirsi parte di un mondo carico di storie. Già allora c’erano coppiette per mano, qualche raro pittore che si portava a casa una veduta sulla tela, e tanta pace. Diventato ragazzo, andavo nel Castello a leggere, seduto sul davanzale, col Panaro che scintilla nel suo greto bigio, abbracciando con lo sguardo colline e campanili. Adesso ci porto i miei figli e anche loro lo sentono cosa propria. Mi raccontano che ci vive un drago, anche se non l’ho mai visto. O forse non ho più l’età per distinguere i draghi nei castelli.

Se un giorno metteranno un biglietto per entrare, io andrò su un sasso a farmi un pianto silenzioso, perché anche gratuità è turismo; ma proverò a non fare polemiche, visto che i tempi cambiano e le nostalgie valgono ben poco. Però, ancora per un po’, mi godo il piacere e l’orgoglio di accompagnare quelli che vengono a trovarmi nel Castello, salutando i custodi come fossero amici, e mostrando ai visitatori stanzoni, affreschi, la splendida Cappella e le iscrizioni segrete che passerebbero inosservate.

Io e mia moglie siamo diventati una famiglia in una indimenticabile casina sui tetti di Vignola. Eravamo i più alti di tutti: d’inverno il freddo era terribile e in estate il suadente canto dei piccioni iniziava alle cinque del mattino. Entravano i pipistrelli e dalle travi un tantino macilente la polvere scivolava diretta sulla tavola, sempre illuminata dal sole, in mucchietti abbastanza inquietanti. Era una gioia innamorarsi (nuovamente) di Vignola da lì, scrivere seduti sul davanzale buttando l’occhio ai comignoli, ascoltare la neve che scende e ghiaccia, dare da mangiare ai passerotti. Adesso non viviamo più lì e siamo scesi in basso, dove c’è più spazio ma non si sfiorano le torri con un dito. Eppure quei due anni sui tetti, in un villino minuscolo e malandato (si accedeva al solaio passando da una porta nella doccia), mi hanno legato ancora di più alla bellezza antica e profumata della mia città.

…Come quando rifaccio per l’ennesima volta lo stesso percorso, guidato da uno sprazzo di luce, da una nube che contrasta col cielo, e salgo fino ai cipressi che coronano una certa collina. Tutti i Vignolesi conoscono questo luogo di passione: tanti figli sono stati concepiti qui, in auto o sul prato adiacente. L’ho rifotografato anche di recente, ma è difficile catturarne lo spirito. C’è l’immensa pianura che scivola fino al Po, con le Alpi imbiancate che baluginano; c’è il rosso delle vigne e dei frutti della rosa canina; ci sono loro, i cipressi appunto, inconfondibile sigillo d’italianità, e lontano il cimitero più bello del mondo, sulla valle, tra i campi arati e una vecchia villa. Qui, dove le colline trasudano argilla e la terra continua a muoversi tra i rovi… E preghi che i ciliegi non cadano nel vuoto, sostituiti dalle case. Ma pure questa, forse, è nostalgia.