Per camminare bene bisogna non stare a guardare l’orologio, né il contapassi. Anzi, meglio non averlo proprio un contapassi perché distrae e, seppure senza troppo clamore, popola il pensiero, togliendo il piacere di assistere alla propria mente che piano piano si svuota del superfluo.
Mi ricorderò del 2018 perché in quell’anno appena trascorso ho imparato a camminare. Sia chiaro, i miei sono passi di bimbo e pertanto soggetti a incidenti di percorso, cadute e bernoccoli, come ogni principiante che si rispetti. A camminare, soprattutto in questo mondo che scorre alla velocità degli elettroni e il rumore di fondo è peggio di un acufene, siamo tutti principianti. Neanche si parlasse d’amore, citando David Foster Wallace.
Così, da bravo principiante, sono partito da Ravenna a piedi in un giorno torrido di giugno, per arrivare a Loreto solo 6 mesi dopo. Anche se si tratta di 200 km, mi rendo conto che impiegarci 180 giorni è un po’ una comica: il mio contapassi avrebbe segnato tipo 1,1 (periodico) km al giorno. Roba che ti tamponano le lumache. In realtà è andata un po’ così e un po’ no. Avevo scelto Ravenna per la sua bellezza. La luce dei mosaici, le splendide basiliche paleocristiane che chissà quante preghiere hanno accolto in più di 1500 anni, i miei ricordi di bambino – ci ero andato in gita alle elementari per la prima volta – e non ultimo per avere negli occhi quel miracoloso tetto di stelle che avvolge il mausoleo di Galla Placidia, testimonianza unica di una visione serena della morte, popolata di astri, con la stella polare che trova i contorni della Croce e accarezza lo sguardo in un abbraccio materno.
È stato il mio primo cammino ed ero solo in una Riviera piena di gente. Noi emiliani – si veda il film “Da zero a dieci” di Luciano Ligabue – abbiamo un legame viscerale e irrisolto col mare di Romagna: ai più fa schifo, ma poi ci tornano malinconici, specie d’inverno; altri lo amano e ovviamente ci tornano pure loro, solo più spesso, e quando capitano su queste spiagge sconfinate in dicembre, e incontrano uno di quelli che pur odiando la Riviera è lì che passeggia e respira lo iodio, i due si riconoscono in un sorriso perché stanno entrambi ripensando alle proprie nonne, nel loro castigato costume intero, e al profumo pannoso della crema solare.
Mi ero dato circa otto giorni per arrivare alla Santa Casa di Loreto, per me uno dei santuari più importanti che ci sia: è dedicato infatti alla famiglia, si trova in un bel posto alle spalle del monte Conero e, sul conto, la Madonna di Loreto è idealmente la protettrice dei viaggiatori. Almeno, di quelli dell’aria; siccome ho pure paura di volare, mi indica la strada. Ho quindi raggiunto Milano Marittima da Ravenna camminando su una fra le belle ciclabili d’Italia, attraverso l’antichissima pineta di Classe; pare di essere fuori dal mondo, completamente calati in uno scenario verdeggiante tra campi di girasole, acquitrini, canali e aroma di resina nell’aria. Vi consiglio di percorrerla, se non avete ancora avuto l’occasione. Da Milano Marittima ho camminato fino a Torre Pedrera (una frazione di Rimini) passando per la Chiesa di San Giacomo a Cesenatico, con l’idea di legare idealmente il mio cammino al più celebre cammino di Santiago, sperando di fare presto pure quello. Quindi Cattolica, il faticoso Monte San Bartolo per arrivare a Pesaro e di seguito Fano, Senigallia e Falconara Marittima. Da Cattolica in avanti il mare mi ha incantato coi suoi colori: spiagge di ciottoli bianchi senza quasi nessuno e acqua dalle sfumature turchesi che mai avrei immaginato. In realtà c’ero già stato mille volte, ma forse di fretta. Camminando si ha tempo per accarezzare i dettagli con lo sguardo.
Ed ecco il fuoriprogramma. A causa di un insieme di motivi, in primis il caldo afoso, l’asfalto e la mia inesperienza, mi sono fatto male. Delle banali vesciche ai piedi, seppur disinfettate e protette con gli appositi cerotti (ma anche ammollate per ore ogni sera nell’acqua di mare), si sono infettate in poche ore diventando piaghe. Per rimanere in tema spirituale, a Falconara Marittima, 40 km dalla meta, mi sembrava di camminare con le stimmate. Ho preso il treno e sono tornato a casa. C’è voluta una settimana di medicazioni, antibiotici e riposo. Però nel cuore avevo una grande serenità.
Esiste un’antica preghiera che recitano i pellegrini diretti a Loreto. Io ho pensato di continuare a recitarla ogni giorno, come se fossi ancora in cammino. Sono andato in vacanza con la famiglia, ho ripreso il lavoro, l’ho pure cambiato, sono arrivati l’autunno e quindi il Natale, ma quella preghiera di poche righe mi ha fatto compagnia per sei mesi. Chissà: forse non ero pronto per raggiungere Loreto o forse era necessario che lo desiderassi a lungo, come tutte le cose importanti. In quei sei mesi ho meditato, letto libri, ripensato alle tante intenzioni di preghiera momentaneamente “congelate”, che la gente mi aveva lasciato perché le conducessi con me al santuario.
Il 27 dicembre siamo ripartiti da Falconara Marittima per concludere il viaggio lasciato in sospeso. Dico “siamo” perché non ero solo: il dono del “fuoriprogramma” è stato concedermi di terminare il cammino con mia moglie, che in estate non aveva potuto accompagnarmi. È bello mollare gli ormeggi da soli e arrivare insieme.
Non c’era nessuno in Riviera. Silenzio, mare calmo, gente che passeggiava infagottata portando il cane. La salita al Conero, spazzato da un vento pungente, è stata faticosa e appagante. Il terzo giorno, finalmente, sono comparse le cupole della Basilica di Loreto. Leggenda vuole che all’interno sia custodita la Casa di Maria, con la finestra da cui l’angelo le diede il ben noto annuncio (o, meglio, le parlò di un meraviglioso mistero chiedendole un sì). La Casa, dopo un rocambolesco viaggio, sarebbe arrivata sul colle di Loreto non prima di fare una sosta (lo so, fa sorridere) alla periferia di Ancona e alle falde del colle stesso. Non sapevo di questi due luoghi, ma un insieme di coincidenze ci ha portato a deviare il nostro cammino e a passare per entrambi i posti, su cui sorgono un paio di chiesette.
Dopo la Messa nella Basilica e un pomeriggio di riposo, il ritorno in treno per la seconda volta. Ho pensato di tornare a Loreto negli anni futuri, sempre a piedi e cambiando ogni volta tragitto, e senza tempistiche né programmi. Forse la verità si nasconde proprio in questo: nella disponibilità ad accogliere il fuoriprogramma, cedendo il controllo del tempo e della nostra strada, in un’attiva e gioiosa passività.