Magico autunno nelle Terre del Lambrusco

Ogni anno l’autunno, tra queste colline, mi sembra diverso. Incantevole e triste come una melodia che qualcuno reinterpreta. Mi perdo nel parco che circonda l’antica abbazia di Monteveglio, le stradine fuori mano che sanno di pioggia tra Savignano e Vignola, le trame gialle e rosse dei vigneti di Castelvetro.

Foto 3 by Devis Bellucci

Mi sento un bambino tra i bambini, lì a guardare i grappoli coi loro nonni, accanto a quelle grosse casse sistemate nel prato che serviranno per la vendemmia. Certe prospettive, certe geometrie dorate sotto il sole ancora caldo di ottobre hanno il sapore del cioccolato, dolce e sabbioso. Ringrazio che almeno qui, dove il paesaggio è ancora segreto, non dilagano le instragrammers in veste da cocktail e grandi cappelli, intonati con la pelle rubiconda delle foglie.

Savignano sul Panaro - Modena
Savignano sul Panaro – Modena

The morns are meeker than they were –
The nuts are getting brown –
The berry’s cheek is plumper –
The Rose is out of town.

The Maple wears a gayer scarf –
The field a scarlet gown –
Lest I should be old fashioned
I’ll put a trinket on.

I mattini sono più miti di com’erano –
Le noci stanno diventando marroni –
La guancia della bacca è più paffuta –
La Rosa è fuori città.

L’Acero indossa una sciarpa più gaia –
Il campo una veste scarlatta –
Per non essere fuori moda
Mi metterò un ciondolo.

Emily Dickinson, 1858

Cipressi e grappoli d'uva, Campiglio. Ottobre 2016 Rid.
Autunno, Vignola – Modena

10 luoghi del Modenese che devi assolutamente conoscere

La provincia di Modena: non solo Terra di Motori e della buona tavola, ma anche uno scrigno di meraviglie tutte da scoprire

Dalle montagne più belle e maestose dell’Appennino Tosco-Emiliano fino al cuore della Pianura Padana, la provincia modenese abbraccia una moltitudine di scenari. Nota in tutto il mondo per una miriade di eccellenze, dalla cucina (mi limito a citare Bottura e ho detto tutto), le sue industrie (dalla Ferrari alla Maserati fino alla celebre “Ceramic Valley”), l’architettura romanica (Duomo, campanile e Piazza Grande di Modena sono parte del Patrimonio dell’Umanità UNESCO) e la musica nei suoi più vari aspetti (sono Modenesi tanto il Maestro Luciano Pavarotti quando Vasco Rossi),  la mia terra mi lascia sempre disorientato per la sua bellezza così variegata. Tutti noi Modenesi, con poca fatica, siamo quindi Modena Pride.

Oggi però voglio raccontarvi 10 mete un po’ meno conosciute, sparse sul territorio. L’estate è arrivata: i locali sono tutti aperti, i sentieri in montagna pronti, le tavole delle osterie apparecchiate e le ciclabili sgombre. Fate un salto di qualche giorno e non ve ne pentirete. E se avete dubbi, scrivetemi.

1) Le cascate del Doccione

Cascata del Doccione - Modena
Cascate del Doccione – Modena

Hanno un’altezza di 120 metri, di cui 24 di salto verticale. Ammirarle è un’esperienza unica, sia in estate che in inverno, quando sono ghiacciate e assumono sfumature azzurre. Per raggiungerle dovete salire in auto fino al borgo di Fellicarolo da Fanano e da qui alla località “I Taburri”. Il breve sentiero che porta alle cascate è allestito anche per il transito di portatori di handicap.

2) Le Salse di Nirano

Il paesaggio delle salse – Nirano, Modena

Classico paesaggio lunare che rende felici i fotografi. Le salse sono emissioni di fango freddo insieme a idrocarburi che, risalendo in superficie, formano i classici coni. Quando ero bambino si poteva scorrazzare in mezzo ai vulcanetti, mentre oggi c’è un comodo percorso attrezzato con passerelle in legno (però è meno divertente, ne convengo). Trovate le Salse, parte di una Riserva Naturale, nel comune di Fiorano.

3) Il borgo di Fiumalbo

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Fiumalbo, che significa “fiume bianco”, sorge nell’Alto Appennino modenese, al confine con la Toscana, immerso in uno scenario selvaggio. Considerato uno dei borghi più belli d’Italia, ha un centro storico davvero incantevole. Le natura circostante può essere facilmente esplorata grazie a una rete di sentieri: ce n’è per tutte le gambe.

4) La Rocca di Vignola

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Scrupolosamente restaurato negli ultimi anni, il castello di tutti i Vignolesi è amato come uno di famiglia. Si tratta di una delle Rocche più celebri d’Emilia Romagna, raffigurata quando ero bambino pure su un francobollo (se ben ricordo, da 380 lire). Aperta per le visite tutti i giorni tranne il lunedì, vi incanterà con la vista panoramica che si gode dalle sue torri e con gli affreschi ai piani inferiori. Da non perdere la Cappella, con un ciclo di affreschi tardogotici commissionato da Uguccione Contrari.

5) La Pieve di Trebbio

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La trovate all’interno del Parco dei Sassi di Roccamalatina, in zona collinare. Già solo il panorama, che spazia dalla valle del Panaro fino al monte Cimone, vale il viaggio. Della graziosa chiesetta, dedicata a San Giovanni, si hanno notizie dal 1163, ma è databile al secolo precedente. La troverete aperta per lo più solo la domenica mattina, in occasione della Messa (direi verso le 10). Accanto ci sono un battistero e il piccolo cimitero.

6) I Sassi di Roccamalatina

I sassi, primavera, Studio1. Rocca Malatina, Aprile 2016 Rid
I Sassi di Rocca Malatina – Modena

Cuore dell’omonima Area Protetta, sono tre guglie di arenaria, formatesi in tempi antichissimi. Grazie alla loro elevazione sul paesaggio, i Sassi furono usati come elementi di un sistema di fortificazioni attorno alla zona della Pieve di Trebbio (vedi sopra). Intorno agli spettacolari picchi rocciosi nidifica anche il falco pellegrino, mentre tutta l’area è disseminata di borghi da visitare (citiamo ad esempio Castellino delle Formiche). Su uno dei sassi è possibile salire con un percorso attrezzato, accessibile più o meno a tutti.

7) Le cascate del Bucamante

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Ci troviamo nel comune di Serramazzoni, in località Granarolo, nel cuore di un bosco fatato. Le cascate sono raggiungibili grazie a due comodi sentieri, denominati Titiro e Odina, per via di una leggenda antica locale. Nelle quattro cascate grandi e nelle cascatelle si possono ammirare anche delle stalattiti, formate dal deposito di sali di calcio. Una delle cascate, detta “la Muschiosa”, è stata scoperta solo alcuni anni fa, perché nascosta dietro a un muro di fitta vegetazione.

8) Il borgo antico di Levizzano Rangone

Primavera 2018 - Levizzano - Studio 1 - DSC 7848

Affacciato sulla Pianura Padana, Levizzano Rangone è un gioiellino che chi non è del posto di solito trascura. Ci troviamo a pochi km dal ben più celebre borgo di Castelvetro (“carino da matti”, come dice il cartello all’ingresso della località), all’ombra di un altrettanto pregevole santuario, quello di Puianello. Da qui, se il cielo è limpido, si scorgono all’orizzonte le Prealpi. In zona non trascurate di dare un’occhiata anche all’Oratorio di San Michele. Naturalmente, fatevi un bicchiere di vino, visto che siete nel cuore della terra del Lambrusco.

9) Il Lago Santo

Riflessi, Lago Santo, Appennino Modenese. Maggio 2016

Semplicemente uno dei laghi montani più belli d’Emilia Romagna (d’Italia?). Si trova a quota 1.501 m slm ed è raggiungibile in auto da Pievepelago attraversando la Valle delle Tagliole. Sedendo sulle sue sponde amene, lo sguardo è catturato dalla grandiosa parete orientale del monte Giovo, che precipita nel lago. Da qui si dipartono sentieri per salire appunto sul Giovo, sul monte Rondinaio e al piccolo lago Baccio. Nei rifugi della zona si mangia molto bene.

10) Il borgo antico di Savignano sul Panaro

Savignano sul Panaro Autunno_1

Savignano “alto”, ossia il borgo antico, raggiungibile dalla zona nuova ai piedi del colle, è un altro angolo incantevole; non perdetevolo la sera, quando dalla terrazza panoramica davanti alla chiesa si può ammirare lo scenario illuminato della pianura. Nel mese di settembre si tiene una famosa rievocazione storica – la “Lotta per la spada dei Contrari” – con spettacoli itineranti, giochi medievali e locande nelle quali gustare ottimi piatti.

Testo e foto di Devis Bellucci.

A caccia di fossili sul greto del Panaro

A due passi dal centro di Vignola, nel Modenese, uno dei più accessibili giacimenti fossili d’Italia, vera gioia per i bambini!

Sarò stato in terza elementare o giù di lì. La maestra disse: “La prossima settimana andremo a fossili. Portate un cacciavite, scarpe vecchie e, chi ce l’ha, un pennello”. Mi aspettavo un viaggio lontano, con l’autobus, invece si trattò solo – per modo di dire – di un viaggio lontano nel tempo. Uscimmo da scuola, attraversammo il centro storico di Vignola in fila per due, mano nella mano come usava allora, per poi scendere sulla riva del nostro fiume Panaro. Solo che in quel punto, non lontano dalle rovine del vecchio ponte, lo scenario era assai diverso da quello che conoscevo: non la vasta distesa di sassi e ciottoli su cui, in estate, si assiepavano brandine e ombrelloni (la chiamavamo la Rimini dei poveri), bensì un affioramento grigiastro, duro come la pietra, che pareva una colata di sabbia fine rinsecchita. Lì ci aspettava un signore di cui non ricordo il nome, e che ahimè immagino sia morto da tempo, visto che era già vecchiotto allora. Era uno dei responsabili del museo civico locale, pronto a tenerci una lezione sull’aspetto che aveva il mondo milioni di anni fa, quando la Pianura Padana si trovava negli abissi di un mare scomparso.

Il giacimento fossilifero è ancora lì, sotto gli occhi di tutti, uno dei più accessibili d’Italia. Basta lasciare l’auto nel parcheggio sotto al castello di Vignola, al Lavabo, e incamminarsi a piedi verso il fiume. La spiaggia fossile è frequentata da gente che prende il sole, fa Yoga o porta a spasso il cane. Tecnicamente si tratta di affioramento di argille azzurre plio-pleistoceniche: granuli finissimi di sedimento color piombo che inglobano una fauna ricchissima, costituita per lo più da conchiglie. Le vedi sbucare, imbrigliate nella polvere, come perle luccicanti. Sono la suggestiva testimonianza di un antichissimo fondale sabbioso, quando gli Appennini non erano altro che anonimi rilievi montuosi in mezzo al mare. Simili affioramenti che pullulano di fossili si trovano anche altrove, nella porzione sub-appenninica di Marche, Toscana, Piemonte e naturalmente Emilia Romagna, ma di rado sono così accessibili come nel tratto del Panaro che va da Marano a Vignola, portati a galla proprio dall’erosione del fiume.

A questo punto non resta che armarsi delle celebre santa pazienza e di una buona dose di delicatezza. L’argilla, infatti, è piuttosto compatta e serve olio di gomito per spaccarne dei frammenti da passare al setaccio (in senso figurato), alla ricerca dei preziosi fossili. Il fatto che sia piovuto di recente può aiutare, ma aumenta anche il tasso di fango: se avete dei bambini si divertiranno da matti, ma alla fine servirà un po’ di calma zen per ripulirli. I piccoli paleontologi vivranno l’emozione di riportare alla luce cornetti e conchiglie bivalvi di ogni forma e dimensione (non sto a scrivervi i nomi scientifici, che tanto uno se li dimentica dopo tre secondi). Gli annali riportano ritrovamenti straordinari: granchi, la mandibola di un tapiro e pure un fossile di ungulato, ritrovato nel 1987. Potete vedere questi reperti nel Museo Civico di Vignola (Via Bellucci 1, aperto ogni domenica con ingresso libero dalle 9:30 alle 12:30). Alla fine tornerete a casa con l’immancabile scatoletta colma di frammenti fossili da spazzolare col pennello e sistemare nella cameretta dei figli. Magari qualcuno di loro, da grande, deciderà di fare il cacciatore di mondi perduti.

La storia dell’ultimo fiammiferario

Gli incontri dell’infanzia raramente vanno perduti. È forse per quell’atteggiamento d’amore e fiducia, privo di giudizio, con cui i bambini guardano il mondo. Era una primavera di più di trent’anni fa quando ho conosciuto il signor Renzo Masi, ma la sua storia dentro di me non è mai sbiadita. Mi ricordo che era stato freddo, prima: un inverno gelido e candido sulla nostra Vignola, di quelli che non passano ormai più, a infagottare le case e i vicoli sotto una coltre di neve alta appunto come un bimbo delle elementari, come me allora e mia figlia adesso. I fili della luce si spezzavano, i bordi del fiume Panaro dormivano nel ghiaccio grigio azzurro e potevi camminarci sopra per un poco, dando la mano alla nonna.

La primavera tornò a imbiancare per la seconda volta le colline e la valle, nello sfavillare magico dei ciliegi fioriti, e sentivamo già aria di vacanza. Quel giorno però la maestra aveva preparato un incontro speciale. C’era un signore sorridente e gentile, che entrò nella nostra aula tappezzata di carte geografiche e appoggiò sulla cattedra uno scatolone. Ci salutò, ci chiese come stavamo (“Beeene!” tutti in coro) e poi tirò fuori dall’imballaggio artigianale un calessino. Era fatto di fiammiferi di legno usati. Tranne i cavalli: quelli erano di terracotta. Andammo tutti in fila ad ammirare la creazione, mentre io ripensavo alla Piccola fiammiferaia, tristissima favola di Andersen raccontataci di recente in classe.

La storia di Renzo Masi però non è triste. Sa invece di pazienza e dedizione. Tutte virtù che scaldano i cuori dei più piccoli e fortunatamente anche la parte bambina del nostro cuore cresciuto. Per anni questo signore della Vignola di un tempo ha costruito un patrimonio di architetture – ma anche carrozze, natanti, ponti, etc – utilizzando solo fiammiferi usati e colla. Ricordo le vecchiette di allora che non buttavano i loro fiammiferi per darli al signor Masi, capace di costruirci chiese e fortezze. E in effetti il bello è che gran parte della materia prima era donata dalla gente. Ciò che non era più utile diventava spunto d’ispirazione.

Tra le opere del fiammiferaio spiccano i tanti castelli della nostra Emilia, in quella che è una testimonianza semplice e preziosa del legame che unisce un uomo alla propria terra. E poi, i grandi monumenti d’Italia e d’Europa: la torre Eiffel, quella di Pisa, il gigantesco duomo di Milano – forse il suo capolavoro – realizzato con ben 33.000 fiammiferi. Capitava di vederlo all’opera durante i mercatini dell’annuale festa con cui Vignola celebra la fioritura dei ciliegi. Renzo stava lì, su un tavolo, in mezzo ai suoi manufatti. Salutava la gente e raccontava il come e il perché.

Uno di noi disse: “Sarà molto ricco, coi soldi che guadagna a venderle”. Lui rispose, spiazzandoci, che i figli non sono in vendita. Stesse parole usate da un pittore/scultore che avevamo conosciuto qualche tempo prima, sempre per iniziativa della maestra. Ci rimasi deliziato. Come ogni volta, appunto, che ho incontrato la gratuità: quel fare il bene che basta a se stesso in quanto accarezza l’anima. Ancora di più, mi piacque come il signor Masi aveva iniziato la sua opera. Ho dovuto passare un lungo periodo chiuso in casa ammalato. Allora avevo il morale proprio  a terra. Immaginare prima, e costruire coi fiammiferi poi, mi ha aiutato a passare il tempo e superare la tristezza.

Allora è stata una buona malattia, pensai. E ne parlammo anche dopo, in classe: le difficoltà possono diventare spunto per grandi cose.

Oggi quel calessino di fiammiferi, che vidi sulla cattedra più di trent’anni fa, è qui davanti a me. Sul mio tavolo, mentre vi scrivo. Me lo ha donato la figlia di Renzo, quando in passato raccontai la sua storia su una nota testata. Andai con lei nel deposito delle cose di papà e mi disse: scegli quella che ti piace di più. Non volevo: era un dono troppo bello. Poi mi sono arreso alla gioia e senza alcun dubbio ho riconosciuto un pezzetto dei miei ricordi. Adesso lo conservo come una reliquia, insieme a una seconda opera. “Ne devi prendere due, perché hai due figli” disse infatti la figlia di Renzo dopo che avevo scelto il calesse. Così arrivò a casa mia anche un vascello con tanto di mercanzie sistemate sul ponte e albero maestro.

Quando mio figlio chiede: “Ma come ha fatto a piegare i fiammiferi per fare le ruote del carro? Non si spezzano?” io rispondo con le parole dell’artista. “Voi non credereste mai, ma in ogni scatola c’è sempre qualche fiammifero speciale, che si lascia modellare senza rompersi. Vanno cercati e messi da parte uno a uno, senza fretta, perché sono i più importanti”.

Il vero problema oggi non è distinguere il fiammifero docile tra i tanti secchi e rigidi: è che purtroppo non si usano quasi più. Non ne avremmo quindi mai abbastanza in dono dai vicini, dagli amici, da chi passa per la strada e ci riconosce, per farne un giorno il Duomo di Milano. Se anche avessimo la stessa arte dell’ultimo fiammiferaio.

Se volete vedere le opere del signor Masi

Purtroppo la preziosa collezione di miniature del signor Renzo Masi non ha la dimora fissa che meriterebbe per essere visibile a tutti. Normalmente, vengono organizzate delle esposizioni temporanee durante l’annuale Festa dei Ciliegi in fiore, che si tiene a Vignola tra marzo e aprile.

Le Salse di Nirano: un frammento di luna nella campagna modenese

Quando le vidi per la prima volta che avevo otto anni, in gita scolastica, non credevo ai miei occhi. Alle falde delle colline vicino a casa mia, tra roverelle e calanchi spelacchiati, dei vulcani. Proprio loro, accidenti, con tanto di cratere, colate (gelide), tipico profilo conico visto sui libri e nei cartoni animati.

Solo che erano vulcani nani – che fa anche rima – splendidi e bonaccioni, tranne quando raramente s’incavolano. Tre metri al massimo di altezza: come quelli dei Puffi. E ti potevi arrampicare liberamente, fino al bordo delle loro bocche silenziose e vive, infilarci dentro una mano, scorrazzare nel fango.

Fango è la parola giusta, in effetti, per la gioia delle nostre mamme stranite quando rientrammo dall’escursione smaltati da far schifo. Parentesi: smaltati, in modenese, vuol dire coperti di malta. Non c’entra niente con lo smalto sulle piastrelle (tantomeno delle unghie), nonostante il contesto sassolese dei dintorni, col suo tripudio di aziende ceramiche che oggi hanno dato luogo alla Ceramic Valley, o qualcosa di simile. Chiusa la parentesi.

Stiamo parlando della Riserva Naturale delle Salse di Nirano, un curioso scenario di grande interesse geologico, caratterizzato dalla presenza di pseudovulcani da cui risale una miscela di fango argilloso e idrocarburi, che cola sui fianchi dei vulcanetti, in rivoli color cenere. La crescita dei coni è un malinconico equilibrio (scusate l’aggettivo: è Natale e mi sento romantico) tra l’apporto di fango dal sottosuolo e l’azione della pioggia, che li scioglie. Negli ultimi tempi però non piove mai e i vulcani erano piuttosto alti anche la settimana scorsa, nonostante siamo in inverno.

Ed è in questa stagione che io adoro la Riserva. Perché non c’è mai nessuno, la galaverna fa brillare l’erba attorno al fango e, nella pace segnata solo da qualche cinguettio, questo frammento di luna respira di una voce percettibile. È la terra liquefatta che gorgoglia dai crateri. I rami rinsecchiti attorno, le pozze coperte di ghiaccio, l’eco delle poche auto lungo la strada hanno il sapore di un sonno buono e fertile, in un luogo dove non cresce nulla.

Se vuoi andarci anche tu

La riserva si trova nel comune di Fiorano, in provincia di Modena. Apposite indicazioni turistiche segnalano l’area protetta. L’ingresso è gratuito. Info qui.

Dopo vent’anni un messaggio in bottiglia. Cioè, in castello

Ok: non si scrive sui muri, i graffitari vanno sanzionati, il fatto è ancora più grave se si tratta di monumenti, etc. Tutte cose verissime. Premesso questo, io ho sempre provato un piacere malinconico nel leggere graffiti e messaggi. Intendiamoci: mica tutti, eh. Intendo quelli vecchi, che raccontano vicende ormai morte e sepolte. Mi sembrano delle sincere espressioni di umanità e testimoniano che il tempo passa, ma noi rimaniamo sempre uguali. Ci struggiamo per le stesse pene, godiamo delle medesime gioie, pecchiamo degli stessi atti di (piccola) maleducazione.

Così, ogni volta che capito in un castello o in un antico palazzo o anche nelle catacombe, laddove le pareti non siano state intonacate di fresco, ecco che l’occhio scivola alla ricerca di una firma o di una data. Soprattutto vado a caccia di storie, con un velo di nostalgia. Se poi la stanza è vuota, l’incanto diventa perfetto: lascio correre la fantasia, dedicando un pensiero a quelle persone ormai inghiottite dagli anni e di cui, forse, rimangono solo quelle dieci parole sul muro.

Un amore, una sconfitta, una speranza.

Le stanze della Rocca di Vignola, dove vado spesso, costituiscono (ahimè) un tesoro in questo senso. Ci sono graffiti vecchi di secoli, di cui solo i Vignolesi DOC conoscono la collocazione. Ammetto che quando porto qualcuno in visita alla Rocca, ho una punta d’orgoglio accompagnandolo in questo o quell’angolo del castello per mostrargli le brevi autografie firmate di qualche prigioniero, o le parole che raccontano una passione non corrisposta di trecento anni fa.

Tuttavia, la scritta che amo di più nel suddetto maniero ha solo una ventina d’anni. È fatta a matita, dunque temo sempre che qualcuno la cancelli. Si trova in una stanzetta che era una prigione. Buia, angusta, con solo una finestrella, tra firme e date che vanno dalla fine dell’800 al ‘900 tutto.

È una splendida lettera d’amore. Risale al settembre del ’96. La vidi per la prima volta qualche anno dopo. Racconta di Silvia e Marco, probabilmente due ragazzini. È lei a scrivere. O aveva uno sgabello – difficile – o era alta, perché lo scritto non è proprio rasoterra.

Pensieri dolcissimi di chi si affaccia alla vita e ama senza se e senza ma, gettando tutto se stesso come si usa a quell’età. Perché non finirà mai, perché siamo destinati, perché solo noi due nell’universo. Quando, insomma, sono ancora lontane le parole di Guccini che canta “il peccato fu creder speciale una storia normale”.

Chiaramente non so chi siano Silvia e Marco, dove vivano adesso e che cosa facciano, ma so che è raro che una passione adolescenziale duri tutta una vita. Eppure spero che a loro sia andata bene. Che ogni tanto ritornino alla Rocca di Vignola a rileggere il romantico testo – che non rivelerò dov’è! – emozionandosi come allora. Magari coi loro figli per mano. Come in un messaggio in bottiglia che non si è spostato di un centimetro, la traccia del loro amore e della loro giovinezza è sempre lì, appena sbiadita, e speriamo che ci resti per sempre.

21-09-1996

[…] Queste pareti meritano di custodire i sentimenti e i pensieri di ogni sognatore che spera come me di rileggerli in vecchiaia […] Voglio che tu sappia, Marco, che mi hai rubato il cuore. Ora è tuo. […] Ti voglio immensamente bene, mi sono innamorata di te […] Se un giorno questo scritto verrà cancellato, sappi che lo potrei leggere nei miei occhi […]

“Al gà al mel dal lumagot”, ossia amore, letto e dintorni nel dialetto modenese (I)

Dove si rivela lo spirito più autentico della Modenesità? Forse ammirando una tavola imbandita, tra zampone, carne lessa con le sue salse, crescentine, salumi, borlenghi e tortellini nel brodo grasso? No, miei cari. Allora passeggiando di sera sotto i suoi portici, quando i lampioni scintillano gialli nella nebbia, che regala a tutti noi uno struggente senso di appartenenza. No, neppure qui. Magari nella musica? Vasco, Guccini, l’indimenticabile Pierangelo Bertoli? Acqua, ragazzi. Acqua.

La verità è nella lingua. Non quella con la salsa verde. Intendo il nostro dialetto, che con immensa costernazione del sottoscritto va scomparendo. Io lo parlo ancora, mentre mia sorella, di soli 9 anni più giovane di me, già lo capisce senza parlarlo d’abitudine. I miei poveri figli cresceranno come randagi senza il dialetto in bocca. Forse finiranno in purgatorio solo grazie ai nonni: loro ancora si esprimono nella lingua dei nostri padri – cioè dei nonni, appunto – preziosa, prodiga di iperboli, favolosamente complicata. Naturalmente, simile al francese: basta mettere “avec” invece di “con”, unica sostanziale differenza, e a Parigi otterrai quello che vuoi parlando in modenese. Ad esempio: Camarèr, am purtarèv un pistunzèin d’acqua AVEC al giàz?, che vuol dire, per chi non sa il francese Cameriere, potrei avere una bottiglietta d’acqua CON del ghiaccio?

Avete un bel daffare a scrivere vocabolari Modenese-Italiano. Se non lo parli il dialetto muore, perché quel che è nato tra sudore, preghiere, bestemmie e rughe profonde mezzo metro non è imprigionabile sulla carta. La gente non sapeva scrivere: com’è giusto, la loro lingua non vuole lasciarsi scrivere.

Ecco allora alcuni dei nostri detti, impastati di passione amorosa, vita contadina, un grano di religione e un pizzico di Partito. E mi scuso con i puristi se li ho trascritti male (ossia, andè a ferèv der).

Al gà al mel dal lumagot = “Ha la malattia del lumacotto”. Lumagot, intraducibile, sarebbe il maschietto adolescente della lumaca. Il detto si riferisce a quando, sul più bello dell’amplesso, l’aitante giovane vede crollare la propria virilità di botto.

Barzòt-Meza Chèrna-Dur-Diamant = “Barzotto – Mezza carne – Sodo – Diamante”. È una serie di aggettivi che ben descrive il livello virilità dell’uomo. Si tratta di una sorta di Scala di Mohs della durezza, per gli amici ingegneri.

Na dàna o le bouna da lèt o ch’le bouna da cà = “Una donna o è brava a fare l’amore, o è una brava donna di casa”. Fu uno dei primi slogan femministi, nel tardo ‘400.

Roba nana, tòta tana = Lett. “Roba nana, tutta tana”. Un detto sgradevole, che suona come bieco tentativo di ridurre la femminilità – in questo caso di una donna di bassa statura – alla sola componente erotico/riproduttiva. L’autore del presente blog si dissocia fermamente.

Ogni badilaz al trova al so mandgaz = “Ogni badile trova il proprio manico”. Suona come un inno alla speranza: l’amore c’è per tutti e per tutte, basta aspettare e cercare.

Quand la berba la ciapa al bianchèin, mola lè la dàna e tachet al vein = “Quando la barba imbianchisce, con l’andare dell’età, è tempo di lasciare perdere le donne e attaccarsi alla bottiglia”. È un severo monito a dare il doveroso peso al tempo che passa, abbandonando con la maturità quella continua ricerca dell’appagamento fisico – che com’è noto non porta alla felicità – in virtù di un ‘esistenza più matura, saggia e temperata.

Le boun ed fèr a malapeina so e zò = “Fa a malapena su e giù”. Dicesi di colui che a letto non brilla di fantasia.

Le un ùsel vulot = “È un uccello che spicca i primi voli”. Dicesi dell’adolescente maschio che, seppur inesperto, già si dà da fare rendendosi pericoloso.

La mitrev l’ùsel anch in al cafelat = “Metterebbe **** anche nel caffelatte”. Si riferisce a colei che soffre per una continua necessità di compagnia maschile. Il detto compare anche in Amarcord di Federico Fellini.

La vèd paser più ùsee le, che le Valli di Comacchio = “Vede passare più volatili lei che le Valli di Comacchio”. Inteso di una donna con molte frequentazioni (le Valli di Comacchio sono una vasta zona umida tra le provincie di Ravenna e Ferrara, n.d.r.).

Quand i sudèn i trèv, te prounta da fèr = “Quando sudano le travi, sei pronta per partorire”. Dicesi di una partoriente che ha raggiunto il culmine del travaglio ed è quindi sul punto di partorire. Notate la finezza retorica, pura poesia: sudano le travi del soffitto sopra il letto della partoriente stessa. Insomma, la donna è vittima di una terribile allucinazione, tanto il suo dolore. Oppure, secondo altri, si riferirebbe la fiato della partoriente che condensa sulle travi e le ripiove addosso. Questa frase venne detta a mia madre da mia nonna, quando stavo per nascere, in risposta alla domanda: “Quanto devo ancora patire prima che nasca?” E io, a mia volta, l’ho ripetuta orgoglioso a mia moglie, durante la nascita di nostra figlia, ricevendo uno sguardo di serena approvazione.

[CONTINUA…]

Vignola, primo amore

Una piccola cosa mi dà una puntina d’orgoglio: che sulla mia carta d’identità ci sia scritto “Nato a Vignola”. Fosse anche perché ormai da diversi anni nessuno nasce più nell’ospedale locale, dove hanno soppresso il Reparto Maternità. Quando ci passeggio la sera, da solo, mentre la nebbia solleva dall’asfalto profumi di fango e foglie morte; quando i lampioni ingialliscono i profili delle case, coi loro portici neri; quando l’autunno – come in questi giorni – riveste d’oro i pioppi lungo il fiume e colora le colline del Lambrusco di viola, dove ti puoi rannicchiare in un palmo di silenzio; quando alti, nel cielo cristallino che l’inverno ogni tanto ci regala, passano gli aerei in discesa verso Bologna, per non dire delle nostre primavere candide, lungo la valle del Panaro ricamato di ciliegi in fiore… Allora la mia Vignola mi pare l’unico luogo bello e sensato dove accucciarsi e aspettare che le cose cambino, che fioriscano amori, che cresca quella passione capace di sottendere ogni progetto.

Da bambino ho imparato a ubriacarmi di storie fantastiche nelle stanze del nostro Castello. Lì c’erano fantasmi, passaggi segreti di cui ancora oggi si vocifera, antichi graffiti e iscrizioni sui muri che raccontano di prigionieri e gente caduta in disgrazia. Ecco: basterebbe già questo. Non so quanti altri cittadini al mondo abbiano a disposizione un Castello personale – e uno dei più belli della Regione, tra l’altro – aperto ogni giorno e dove entrare liberamente, senza pagare, ammessi a un vagabondaggio tra stanze, torri, scale. Come in una chiesa laica. Da bambino ci passavo interi pomeriggi con la nonna, sperimentando la suggestione che deriva dal sentirsi parte di un mondo carico di storie. Già allora c’erano coppiette per mano, qualche raro pittore che si portava a casa una veduta sulla tela, e tanta pace. Diventato ragazzo, andavo nel Castello a leggere, seduto sul davanzale, col Panaro che scintilla nel suo greto bigio, abbracciando con lo sguardo colline e campanili. Adesso ci porto i miei figli e anche loro lo sentono cosa propria. Mi raccontano che ci vive un drago, anche se non l’ho mai visto. O forse non ho più l’età per distinguere i draghi nei castelli.

Se un giorno metteranno un biglietto per entrare, io andrò su un sasso a farmi un pianto silenzioso, perché anche gratuità è turismo; ma proverò a non fare polemiche, visto che i tempi cambiano e le nostalgie valgono ben poco. Però, ancora per un po’, mi godo il piacere e l’orgoglio di accompagnare quelli che vengono a trovarmi nel Castello, salutando i custodi come fossero amici, e mostrando ai visitatori stanzoni, affreschi, la splendida Cappella e le iscrizioni segrete che passerebbero inosservate.

Io e mia moglie siamo diventati una famiglia in una indimenticabile casina sui tetti di Vignola. Eravamo i più alti di tutti: d’inverno il freddo era terribile e in estate il suadente canto dei piccioni iniziava alle cinque del mattino. Entravano i pipistrelli e dalle travi un tantino macilente la polvere scivolava diretta sulla tavola, sempre illuminata dal sole, in mucchietti abbastanza inquietanti. Era una gioia innamorarsi (nuovamente) di Vignola da lì, scrivere seduti sul davanzale buttando l’occhio ai comignoli, ascoltare la neve che scende e ghiaccia, dare da mangiare ai passerotti. Adesso non viviamo più lì e siamo scesi in basso, dove c’è più spazio ma non si sfiorano le torri con un dito. Eppure quei due anni sui tetti, in un villino minuscolo e malandato (si accedeva al solaio passando da una porta nella doccia), mi hanno legato ancora di più alla bellezza antica e profumata della mia città.

…Come quando rifaccio per l’ennesima volta lo stesso percorso, guidato da uno sprazzo di luce, da una nube che contrasta col cielo, e salgo fino ai cipressi che coronano una certa collina. Tutti i Vignolesi conoscono questo luogo di passione: tanti figli sono stati concepiti qui, in auto o sul prato adiacente. L’ho rifotografato anche di recente, ma è difficile catturarne lo spirito. C’è l’immensa pianura che scivola fino al Po, con le Alpi imbiancate che baluginano; c’è il rosso delle vigne e dei frutti della rosa canina; ci sono loro, i cipressi appunto, inconfondibile sigillo d’italianità, e lontano il cimitero più bello del mondo, sulla valle, tra i campi arati e una vecchia villa. Qui, dove le colline trasudano argilla e la terra continua a muoversi tra i rovi… E preghi che i ciliegi non cadano nel vuoto, sostituiti dalle case. Ma pure questa, forse, è nostalgia.

San Pellegrino in Alpe: il santuario da salvare sul tetto degli Appennini

«Venga, le faccio vedere. Le pareti della Cappella stanno marcendo per le infiltrazioni d’acqua. Qui gli inverni sono davvero rigidi, sa? E c’è da rifare il tetto del campanile, la balaustra dell’organo cade a pezzi, le panche del ‘700… Lasciamo perdere: l’umidità, le muffe, i tarli, le stanno distruggendo. Per non parlare dei serramenti sia del Santuario che della canonica: un disastro». Si infervora la signora Graziella, mentre con irresistibile accento toscano elenca gli acciacchi dell’antico Santuario di San Pellegrino in Alpe, che ormai da alcuni anni è diventato per lei una seconda casa.

Una casa a due passi dal cielo, in senso geografico oltre che spirituale: coi suoi 1525 metri di quota, infatti, San Pellegrino è il centro abitato a maggiore altitudine dell’intera catena appenninica. Le poche case si stringono attorno alla chiesa e a quello che era l’ospitale, dove nel medioevo si accoglievano i viandanti giunti a venerare i resti di San Pellegrino e di San Bianco. Luoghi pieni di leggende, visitati in passato anche da papi e imperatori. Oggi il borgo di pietra è un suggestivo baluardo di confine, curiosamente condiviso tra le province di Lucca e Modena. Se entri nel bar, puoi bere il caffè in Toscana e quindi accomodarti alla cassa in Emilia, per pagarlo. Anche il Santuario è compartito e i resti dei due beati riposano in un’urna con la testa in Emilia e i piedi in Toscana.

Sono undici le persone che vivono sul tetto degli Appennini. Undici più due, contando appunto la signora Graziella e suo marito Pierino, pensionati di Altopascio  – questa volta completamente in provincia di Lucca – che ogni anno si trasferiscono qui da maggio a novembre per tenere aperto il Santuario e accogliere i pellegrini «Nonché», continua Graziella sorridente, «Gestire il negozietto di articoli religiosi, servire Messa, fare la manutenzione ordinaria e tutto quel che serve».

Il problema è proprio la manutenzione straordinaria. Per ristrutturare adeguatamente chiesa e foresteria servirebbero qualcosa come 200.000 Euro. «Perché ci piange il cuore: non abbiamo modo di ospitare decentemente le persone che, seguendo a piedi vari sentieri, per motivi spirituali o altro, arrivano qui e hanno necessità di un tetto per la notte o un piatto caldo. Spesso è gente che cammina per giorni e non sempre ha abbastanza soldi per alloggiare in albergo. Purtroppo le casse della Diocesi non hanno la liquidità necessaria per intervenire. Al contempo, tante persone dimenticano di fare una piccola offerta. Per noi gli spiccioli che si lasciano dopo aver acceso una candela, l’acquisto di un Rosario, di un libricino o di un souvenir nel negozio sono vitali».

In inverno, quando il borgo cristallizza sotto un manto di ghiaccio e neve, Graziella e Pierino diventano pendolari e risalgono ogni due settimane i tremendi tornanti che collegano San Pellegrino con Castiglione Garfagnana. Una strada sfiancante, che ha fatto penare i ciclisti del Giro d’Italia e che viene affrontata in estate da (intrepidi) appassionati delle due ruote. A chi riesce nell’impresa viene dato persino un attestato di benemerenza. Salendo, prima ancora che il borgo, ti accoglie una semplice croce conficcata fra le rocce, nel punto in cui si dice sia stato trovato il corpo di San Pellegrino. È fatta di faggio, perché leggenda vuole che il Santo avesse trovato dimora nel tronco cavo di uno di questi alberi. Della sua vita, in realtà, si sa poco e ancora meno del suo compagno San Bianco. Ogni anno, durante la festa patronale che si tiene il primo di agosto, la croce viene sostituita con una nuova e ai fedeli viene donato un frammento della sua corteccia.

«Guardi che meraviglia» sussurra piano Graziella come per non disturbare, mentre ammiriamo il panorama, e racconta l’incanto delle sere in questi luoghi senza nessuno, quando i canti degli uccelli animano il tramonto e ai tuoi piedi si distende una coltre di nubi. Allora il cruccio per i segni del tempo che affliggono il Santuario lascia spazio alle storie delle persone incontrate su questo nido di preghiera tra i monti. «Lei non immagina quante grazie sono state ottenute dai nostri Santi. Piccole e grandi. La gente torna a ringraziare e spesso condivide con me la gioia per la grazia ricevuta. È l’emozione più grande». Intanto la vista spazia lontano, superando pascoli e abetaie, verso i crinali ispidi delle Alpi Apuane con le loro venature di marmo. Tra una vetta e l’altra balugina una frontiera azzurra, che potrebbe essere il Tirreno, e la croce chiara di San Pellegrino trema al vento come dall’estremità di un molo.

Vuoi andarci anche tu?

San Pellegrino in Alpe si trova a pochi chilometri dal Passo delle Radici, tra le provincie di Modena e Lucca, lungo la strada che va a Castiglione di Garfagnana. Come potete immaginare, se c’è neve si può avere qualche difficoltà a raggiungere il borgo. Trovate due ristoranti e un albergo. In estate il santuario è sempre aperto, mentre in bassa stagione, se lo trovate chiuso, fate un salto in bar: mi hanno detto che qualcuno ha sempre le chiavi.

Per informazioni: santuariosanpellegrinoinalpe@gmail.com